VINCENZO DORSA
(Frascineto 26.2.1823- Cosenza 4.12.1855)
SULLA POESIA ALBANESE
(Il Calabrese - 30 giugno 1844)
Si ricordi sempre quel che troppo
i suoi predecessori abbliarono,
cioè di avere una patria, e canti
continuamente le glorie e le
sventure del suo paese.
V. Hugo
Lo studio delle cose proprie da taluni si prende a sprezzo. Io lo capisco - Eglino infetti da quel morbo che tanto avvilisce il volgo degli uomini, per cui non vede oltre la spanna, ad un debil bagliore delle cose straniere vengono subito affascinati, onde poi credono che ciò ch'è lontano interessa sempreppiù di ciò che è vicino. Il buon Diogene che filosofava per abito in ogni suo detto, dimandato quali fossero le cose migliori del mondo - quelle che vengon da fuori, rispose. Che vale a me Calabrese il conoscer delle cose di Roma, se son nuovo pellegrino nè fatti della Magna-Grecia che intorno per ovunque mi parla nè suoi dispersi rottami? E che vale a me Albanese l'esser addottrinato nelle Calabre antichità, se all'ansio viaggiatore che mi sente parlare in mezzo Italia estraneo linguaggio e mi vede tra originali costumi, io non saprò satisfare la dotta curiosità? -Ogni popolo ha le sue memorie e le sue particolarità a raccontare e studiare. -Così persuadeva a me stesso quando tolsi a scrivere qualche pensiero sulla nostra poesia Albanese. E fin d'allora mi proposi investigare, 1° qual grado percorra nel suo corso la poesia Albanese, 2° qual sia la sua natura e il suo spirito, 3° finalmente sotto quali distinzioni convenga riguardarla.
E' il principio celebrato costantemente dalla filosofia che la letteratura di un popolo cammina a pari passo col suo sviluppo sociale. Fissata una tal verità, noi facendoci col pensiero ne' tempi primitivi quando l'uomo uscì dalle mani del creatore, e poi percorrendo la curva de' secoli fino al punto in cui lo vediamo decadere dall'apice della perfezione intellettuale e far ritorno ai primi periodi della sua umanità, osserviamo tale e sì regolare fenomeno, che senza tema d'inganno direm di un popolo in particolare ciò che presenta l'uomo in generale.
L'uomo, giusta i profondi principi di Giambattista Vico e di qualunque sana filosofia, ne' primi gradi della società non parla che un linguaggio poverissimo. Nell'esprimersi quindi egli dev'essere per necessità sublime, nel concepire grave, e acuto nel comprender molto in brevi parole. Epperò il suo linguaggio va tutto composto di metafore, immagini, circolocuzioni, simiglianza, paragoni, che va raccapezzando in quella scarsezza di voci per vestire al miglio modo possibile le sue idee e presentarle. Le sue idee non sono che particolari. A giungere il grado umano quando per profonda riflessione e lunga familiarità colle arti del pensare e del parlare lo spirito acquista la forza sintetica per cui si eleva da su l'individualità e generalizza, l'uomo dee percorrere prima assolutamente i secoli dell'infanzia e della giovinezza, dee passare successivamente e per lunghi intervalli dai tre grandi stati di caccia, pastorizia, agricoltura a quello del commercio. Che anzi nell'epoca di cui tenghiam parola, egli non solo tutto individualizza, ma il mondo delle sue idee si restringe nel cielo orizzontale della propria terra.
Dietro la scorta di tali ineluttabili verità, tornando al nostro argomento, diamo uno sguardo al popolo Albanese, e analizziamo la sua poesia. -Già è a premettersi che quel popolo nè ha avuto nè ha scrittura alcuna. Confuso negli antichi tempi co' Greci, e poscia co' Musulmani, rifulse nella gloria de' primi, e si oscurò nelle tenebre de' secondi. Tra questi in barbara regione e sotto una legge che nemica taglia il corso dell'umano progresso, continuò i suoi giorni stazionario, fino a che la mano del destino facendolo lumeggiare per momenti nella propria gloria, lo divise poscia da' suoi fratelli, e lo sospinse in questa regione più fortunata. Qui da allora sentì più mite la vita; ma non pertanto perché ristretto a poche migliaia d'individui e vivente in mezzo ad una cultura straniera, non potè riscuotersi come ancora non può da quella necessaria inoperosità. Ed ecco per cui di presente se vi scorgi in esso degli avanzi d'Albania, lo confondi poi nella civiltà Italiana.
Non avendo avuto dunque una scrittura gli Albanesi, scrissero nella mente le loro memorie e le tramandarono a noi per tramandarle anche ai nostri figli. Quindi i canti e le poesie della loro età eroica sotto il famoso Scanderbek formano appunto una parte interessante della odierna poesia Albanese. E ciò di fermo, perciocchè quelle canzoni tradizionali sono i canti comuni delle feste e de' banchetti. -Ma quale è mai la loro natura, il loro carattere, il loro spirito? Noi abbiam premesso che il popolo Albanese quando le dettò era ancor giovine e si versava in mezzo le attualità di un tempo eroico, quindi scarso il suo linguaggio, particolari le sue idee, enfatiche e sublimi le sue espressioni, abbondanti le sue metafore, le sue immagini, i suoi paragoni. Sotto queste qualità ci si presentano le canzoni tradizionali di esso. Si ravvisa di fatti in generale un aria figurata all'eccesso, la quale mentre fa scorgere la povertà del linguaggio annunzia parimenti una immaginazione ardente sì ma senza legge. E per quest'ultimo riflesso vi si osserva ancora una sconnessione di parti, uno stile sempre veemente e conciso, ed una ripetizione di versi interi, sentenze, immagini, caratteristica già della poesia Omerica. -La pittura della terra d'Albania, de' costumi di quel popolo delle sue credenze, del circolo delle sue idee traspare evidentemente. Quella terra è seminata di montagne, e in quelle montagne vi abbondano gli sparvieri, le pernici, le colombe, vi biancheggia eterna la neve, vi si mostra la luna nella sua serena luce, il sole nel suo acutissimo splendore. Quindi le similitudini del labbro rosso al becco o al piede della pernice, dello sposo allo sparviere che scende dalle montagne in mezzo le colombe a scerne una bella e rapirla per sposa; quindi una bella è bianca come la neve, è splendente come la luna di Gennaio, e un vaghissimo giovine guerriero abbaglia sì come il sole quando sorge. Le donne Albanesi fan uso di grandi spille per appuntare nella chioma il velo nuziale, ne' canti epitalamici quindi la sposa vien detta spilla d'argento, capo di spilla. -Ma le strane credenze alle magie e agl'incantesimi delle fate, residuo della mitologia dell'antico Nord e della Persia, danno alle canzoni un aria veramente bizzarra orientale. si veggono personificati alla rinfusa gli oggetti inanimati e le bestie fornite di ragione e linguaggio umano. La polvere di una tomba diventa un uomo, il coperchio di quella un cavallo, e i cavalli fatati parlano, e se il oro cavaliere fu ucciso in battaglia, essi vanno alla sua Signora per annunziarli la morte gloriosa di lui. -Vi campeggia d'altronde il sentimento religioso cristiano. si va a battaglia e s'invoca l'infula di Dio e de' santi, si riesce vincitore e si ringrazia Iddio. E' la religione Cristiana che dà lo spirito religioso e non la Gentile, dappoichè le canzoni come osservammo furono composte ai tempi di Scanderbeck, ed in allora il Cristianesimo s'era già intromesso nell'Albania.
Quell'epoca è per gli Albanesi come è pe' Greci quella che ha preceduto Solone, pe' Romani il periodo avanti la Greca imitazione, per gli Arabi i tempi anteriori a Maometto, e pe' Caledoni l'età dell'Ossian. Infatti la poesia di questi popoli tutti che risale ai diversi tempi qui notati non consisteva che in liriche canzoni eroiche e in canti narrativi che celebravano le imprese guerresche e il sentimento dell'amore. Non altrimenti le canzoni Albanesi -cantano Scanderbek, Ducagino, Costantino, ecc., la gloria delle famiglie di costoro, lo sdegno e l'odio guerriero contro il Musulmano, le avventure tutte di quegli Eroi, i loro amori, e tutte dallo spirito potente che le detta paiono destinati ad incoraggiare alla guerra e a far risaltare il valore e le glorie nazionali.