V
Balzai sul lito, e sotto l' ampia tenda
D' un cavo legno mi corcai la notte ,
Sovra l' arena si sedea la ciurma
E dalle curve pipe il fumo intorno
Per l' aere si volvea. -Era stellata
La volta dell'empiro, e a quando a quando
S' udiva il tonfo delle acque, e il soffio
Della brezza notturna, e abbrividiva
Le mie torpide membra. -Oh come dolce
M' era il rombo del mar! -Stendeva l' ali
Sovra il mio corpo lusinghiero il sonno ,
Ed io sognava il primo amor, sognava
Quel dì che sempre mi fe lieto e tristo.
Parea seder nel mezzo alle fresche onde,
Sotto un cielo stellato ameno e puro,
E d'amorosa donna udiva il canto
Che dal lido vicino si partiva;
Era il canto primier della mia donna
Che a me scioglieva nel suo primo amore.
O giovinetta, dalle bianche braccia ,
Dalla pupilla sorridente e nera,
Dal folto crine, e dal divino aspetto,
Come t'adoro, e come bella ancora
Tu sei ne' giorni di mia lunga vita.
Tu ancor mi appari, come l' Eva un giorno,
Appariva ne' sogni all'uom creato ,
Là nell' Eden divino; al par di lui
Per la terra vagando io te ricerco
All'alba e a sera, e te riveggo sempre
Nel tramonto del sol, nel primo albore...
Luce degli occhi miei ove t' ascondi ?
Sursi con l' alba, ed alba mai più bella
Non vidi in vita mia! -
-Sul bruno dorso
D' un cavallo montai- trascorsi i campi,
E la vasta pianura -e dentro spinsi
Nei vortici del fiume6 e torba l'onda
Intorno al largo petto gorgogliava.
Tre volte giù mi trasse, e per tre volte
L'animoso cavallo rompe il gorgo
Che intorno a lui si aggira e me conduce
All'opposta riviera. -O mio cavallo,
Generoso destrier, di bianca spuma
Tu me covrivi, e svolazzava al vento
La tua folta criniera! -lo divorava
Quelle lande arenose, e già lasciava
Dietro ai miei passi le fuggenti sponde,
E d' Appennino mi appariva il dorso,
E le vette nembose e i bruni monti.
Qui nuovo cielo e nuovo Sol vedea ,
Aure novelle mi batteano in volto.
Non è la voce qui che mi percote
O d'uomini, o d'animai; è la solinga
Voce del mondo che ti parla solo.
Vedi schierata quella doppia fila
Di fagi, abeti, e di fronzuti pini ;
Vedi quei fusti, e quelle piante antiche
Che dritte, altere per l'azzurra volta
Ergon le braccia solitarie, immense
Rimembranti l'età coeva al mondo.
Preparati alle lotte e alle tempeste
Della natura stan silenti e soli,
Quasi aspettando nuovi fati e nuovi
Feri contrasti con la terra e il cielo.7
E tu, o sacro abete, cui la pia
Gente sacrava ad una vergin santa;
Onor delle montagne, meraviglia
Del pellegrino che venia da lungi,
D'un rio mortale per la man profana
Cadevi al suol; ma ancor fra le rovine
Annunzi al passaggier la tua grandezza.8
Io m'internai tra quelle ombrose valli
D'ampli fagheti ricoverti e cinti,
E nell'orror di quelle cupe volte
Splendea l'argentea briglia e la stellata
Fronte del mio cavallo, e il suo nitrito
D'eco in eco percosso ripeteva
L 'eco lontano dagli opposti monti
Saliva alfine su quegli erti gioghi;
E di quei monti superai le cime,
Ch'irte, giganti, denudate e brulle ,
Al cospetto del Sole ergean la fronte
Quasi Titani , monumenti antichi
D'un monte rovesciato -e monti a monti
Sovrapposti varcai, infin che l'onda
Dell'altro mar m'apparve di lontano,9
E le calabre valli, e le riviere ,
E le selve ramose , e i dispiegati
Campi fiorenti, e della Sila i monti.
Alzai la fronte e salutai le curve
Sponde del Jonio , ed i sonanti flutti,
Che foschi, immensi si volveano innanzi
Come disco di luce balenante
Per l'aer nero; e sovra il capo il rombo
Udia dell' Aquilone, e difilata
L'aquila passar come sovrano
Per le creste de' pini e degli abeti.
lo mi fermai, e là stupito il guardo
Teneva intento al panorama immenso.
Soffiava il vento con gagliardo spiro ,
Fluttuava la coda al mio cavallo,
Come la spira di un serpente, e intorno
S'avviluppava tra le brune pieghe
Del mio mantello che di brina grigio
Sinuoso le membra m'avvolgea. -
O solitari, inabitati monti,
O comignoli antichi che al fronte
Entro le nubi ravvolgete sempre,
Sul dorso della terra proiettati -
Come fantasmi, -in voi posava Iddio
La grand'orma sua, in voi favella ancora
L'arcana voce del creato! Eterni
Baluardi dell'uom contro dell' uomo!
Intatta neve v' incorona sempre ,
E il grand'arco del Sole vi percorre
Dall' Orto e dall' Occaso, e i non battuti
Lochi rischiara non veduti mai
Dal guardo umano. Oh qual nel cor mi sento
Selvaggia forza che m'inspira il grande
Sublime aspetto del creato! lo sento
Volar per l'aria e per le fosche nubi
Lo spirto mio! -
E poi che m'ebbi alquanto
L'alma spaziata per quell'ardue cime,
Ripresi il mio cammino e monti e monti
Ed altri monti ancora, in fin che poi
Per le ripide chine discendendo
Giunsi di Lungro sulle alpestri rupi;
Vidi da lungi fumigare i tetti
E le sparse capanne, e le correnti
Tortuose del Tiri, un grido allora
Sulle labbra mi venne e per le ossa
Mi corse un lungo brivido d'amore
E la mia patria salutava. O Lungro,
O patria mia, o mia diletta terra,
Come bella tu sei agli 'occhi miei !
Bacio la polve, i sassi, e sul mio ciglio
Quasi gemma brillò stilla di pianto.
O beato colui, cui la fortuna
Una patria concesse, una diletta
Cara terra natia, ove riposa
Degli avi il cener muto; ove la vita
Le sue gioje rammenta e le sventure.
Corsi agli amplessi degli amici; ahi lasso!
Eran mesti quei cori, eran dolenti!
Novello pianto mi solcò le gote,
E si pianse colui che più non era !
E raccolti nel Tempio, ai mesti uffici
Che pietosi rendemmo all'uom defunto;
Al lento tocco de' lugubri bronzi;
Fra il pio compianto e fra le sacre preci,
E tra la mesta salmodia de' carmi ,
All'estinto intuonai l' ultimo canto:
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6 Il fiume Mercurio, che dopo aver attraversato le due catene degli Appenninj che quasi dividono la Basilicata dalle Calabrie, s'imbocca nel Tirreno. Lo guadai nel territorio di Scalea nel confluente distante circa due miglia dal mare.
7 Sublimi, pittoresche sono le nostre montagne. Esse ti presentano la vera idea delle bellezze selvagge, e primigenie della natura. In mezzo a quei vasti laghetti, tra quelle correnti d'acqua limpidissime e freschissime ti sembra di essere nei tempi primitivi della creazione. I tagli non interrotti degli avidi speculatori distruggono continuamente quelle scene sublimi. Un segreto ed intimo dispiacere invade le fibre dell' animo in vedere atterrati quegli alberi secolari, quei primitivi figli della natura, senza economia e religione alcuna; ma a libito e capriccio degli appaltatori e degli operai. Le scene della natura sono belle come i capi d'opera del genio umano, e si debbono conservare con la medesima cura. Vi sono certe bellezze naturali che sono uniche al mondo, e appartengono a quei luoghi, cui la provvidenza le ha largito. L'antica Grecia li metteva sotto la protezione dei Numi. Nè tagli si devono chiamare; ma orridi macelli , miserandi monumenti del vandalico furore dei barbari moderni. Vi era un luogo ove i fagi erano nati con tanta simmetria ed ordine che davano il modello perfetto di un teatro. Il passaggiere si fermava con ammirazione; ed ora ...rammenta quanto è brutale la forza distruttrice dell'uomo.
8 L'abete che si elevava nel Varco detto di S. Caterina. Era una meraviglia a vederlo. Aveva un diametro ed un'altezza smisurata. Era un portento della natura. La pia gente, cui era ricovero ed ombra, lo pose sotto la protezione di una santa; ma ciò non valse. La sacrilega mano di un Moranese l'atterrava per l'avidità di speculare in larghi tavoloni.
9 Àvvi nelle nostre Montagne un monte sul cui vertice appena giunto, si spalanca inaspettato allo sguardo, come un immenso Anfiteatro , la marina dell'Jonio, la pianura del Crati ed i monti della Sila. È impossibile vincere con la dipintura poetica una realità così svariata, e moltiplice di cose. Cielo, terra, mare, fiumi, monti, valli, foreste, colline, paesi, villaggi, laghi, romitori, capanne, vortici di fumo, nuvole vaganti, mugolio di armenti, voce di uomini e di animali, tutto si mesce in un turbine d'aria, di luce, di suoni e d'armonie, e finisce in una grande voce universale, quasi inno di gloria al Creatore dell'Universo!
ODE
IN OCCASIONE DELL' ESEQUIE FUNEBRI CELEBRATE IN ONORE DI D. RAFFAELE MAIDA NELLA CHIESA DI LUNGRO IL GIORNO 16 NOVEMBRE DEL 1857.
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Perchè, o Lungro, di nere gramaglie
Son del tempio vestite le mura?
Perchè piangi ? Qual atra sciagura
Sul tuo capo la mano gravò ?
Ahi quel carme , quel lugubre canto
Qual ti annunzia. funesta novella?
Deh mi narra, rispondi, favella ,
Sorte amara a te forse toccò ?
Ahi che morte crudel ti rapia
Quei che il crine ti cinse di fiori;
T'appendeva ghirlande d'allori,
T'allegrava la speme nel cor.
Piangi, o Lungro, sparito è il tuo vanto;
Chi t'infiora di canti la vita ?
Chi del vero la norma ti addita,
E del bello t'ispira l'amor ?
Ombra illustre, ti sveglia, ti desta,
Alza il capo dal funebre avello;
Odi il canto che il sonno più bello
Della morte nell'urna ti fa.
Qui tra il pianto di mesti fratelli
I vegliardi diran le tue lodi;1
Qui tra gl'inni celesti tu godi
Quella vita che fine non ha.
Tu di fiori spargesti le tombe
E allegrasti la polve degli avi; 2
Tu la lira financo tempravi
Sulla speme che fatta fuggì. 3
Giusto è il pianto che bagna il mio volto,
E pur giusto il mio fero lamento,
Se il tuo verso nel cor più non sento,
Se il tuo raggio per sempre sparì.
Difensor d'infelici tu fosti;
La tua voce nel foro tuonava;
La pietà dal tuo labbro parlava;
Dileguavi dai cuori il dolor.
Come neve che rota nel piano,
La parola dal labbro t'uscia;
Più che mele dolcezza fluia;
Ti seguiva volente ogni cor
Ahi che morte fu cruda, fu dura,
Quando il fior di tua vita ha reciso;
Quando l'ali batteva improvviso,
E feroce dall'alto piombò.
Ma più dura più cruda che pria
Altro sangue chiedeva furente;
Ma quel Nume che veglia clemente
La sua sete di sangue temprò.
Giovinetto, qual core fu il tuo, 4
Quando il padre morente vedesti?
Infelice! Tu indietro volgesti
La tenebra t'assalse nel cor!
Tu primiero nel tetto materno
Diffondevi l'annunzio fatale;
Tu cogliesti quell'ultimo ville
Che spirava da un labbro d'amor.
Fur tremende le grida di pianto;
Ancor l'eco l'orecchio percote;
L'aure stesse rimasero immote,
D'ululati ogni stanza echèggiò.
Cinque figlie d'intorno all'estinto
Ulularon, discinte le chiome;
E sovente il chiamaron per nome;
Tuttil notte que.l pianto durò.
Ma più tetra divenne la scena,
Quando giunse dinanzi alla soglia,
Di tuo padre la misera spoglia;
Fero un grido di morte s'alzò.
Infelice! perchè della morte
Non rompesti le leggi fatali?
A quei pianti a quei gridi feral,j
Chè non surse tua spoglia mortal?
Sventurato! Tu allor noI potevi!
Chi può romper la legge si dura,
Che c'impone la madre natura,
Quando spenta è la fonte vital!
E tu, cara fanciulla, divina,
Tu che morte nel duolo cercavi,
Che dall' alto di un vano piombavi,
Chi la vita in quell'ora ti diè?.
Forse un Angiol ti venne d'incontro.
E leggiera sul suoi ti posava?
Infelice! Non sai, che pregava
Di tuo padre lo spirto immortal?
Egli appiè dell' Eterno volando,
"Padre, disse, ti basto sol io;
La mia figlia, da scempio sì rio,
La mia figlia risparmia, o Signor! "
E benigno l'Eterno lo sguardo
Volse in prò di quel crine canuto.
Che dall' ira del fato battuto,
La sua calma nel cielo trovò.
Sventurata famiglia, deh! cessa.
Ti consoli memoria sì pia;
Negli affanni sollievo ti fia;
Ti conforti nel lungo dolor.
Sorgi, o grande, 'la voce possente
Qui s'innalza a tua gloria perenne 5
Qui la fama dispiega le penne
Dei tuoi morti racconta il valor;
Sul troncon di una quercia cadevi,
Al tramonto di un sole raggiante:
Come te quel monarca fiammante
Nella tomba del mar si tuffò.
Sì, qual Sole che piega fulgente
La sua chioma nell'onda marina,
Tu cadevi; ma bella, divina
Altra luce nel Ciel ti brillò.
Era luce di gloria, di speme
Che t'accolse beato nel Cielo;
Là, vestito di candido velo,
Odi il canto che s'alza quaggiù.
Questo canto è l'estremo saluto
Che a te manda il terreno natio;
Dormi in pace- nel grembo di Dio.
Abbi il premio di tante virtù.
Dormi in pace - fia lieve l'auretta
Che t'aleggia dintorno alla tomba;
Verrà dì che più chiara la tromba
Le tue lodi alle genti dirà!
1. È costume presso i Greci che il più anziano ed illustre per fama ,orge a narrare le lodi di quelli che ben meritarono dalla patria. Difatti D. Domenico De Marchis, nella canuta età, venne nella Chiesa di Lungro, e lesse in onore del defunto un orazione funebre che sarà forse unica ai giorni nostri. È il lavoro di un uomo che da tanto tempo ha formato l'ammirazione e la stima dell'universale.
2. Si allude all' orazione funebre scritta dal defunto sulla morte dello egregio e benemerito concittadino D. Abramo de Marchis, uomo versato in tutte le branche dello scibile, e ch'era in corrispondenza con le primarie celebrità del Regno.
3. Si allude ai pochi fiori che il defunto spargeva sulla tomba del giovinetto D. Domenico Martino troppo presto rapito alle speranze della patria e delle lettere!
4. Il dì 8 Novembre del 57 D. Raffaele Maida colpito da paralisi nel cuore si moriva tra le braccia degli amici lungo la Strada che mena a S. Leonardo appiè di un annosa quercia, a vista di un sole che tramontava in tutta la magnificenza de' suoi raggi. Corse il figlio; ma l' infelice, a quella vista, gli sbalzò il cappello dal capo, e retrocesse il passo mal reggendo allo spettacolo di un padre moribondo. Stette in forse di vita. Acccompagnato da D. Saverio de Marchis, ed altri amici, fu condotto in casa, ove diede il triste annunzio alla desolata famiglia. Allo imbrunire la spoglia mortale del defunto toccava la soglia della sua abitazione su una sedia portato a braccio dalla pia gente del paese. Le grida in quel momento giunsero al cielo. Una giovinetta, l'ultima figlia del defunto, per nome Filomena, spinta da un delirio di affetto paterno, si slanciò da una finestra per raggiungere il padre. Iddio la salvava!
Ho accennato questi particolari per rischiarare qualche strofa della lirica.
5 L'impareggiabile e virtuoso concittadino D. Vincenzo Laurito scrisse la biografia del defunto. Splendidamente ha narrato i fatti e le gesta in modo che nulla vi lascia a desiderare.