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IL 1860


E' facile immaginare quanto si acuisse in Lungro il fremito di rivolta e di libertà, sul finire del 1859. Il governo borbonico, stretto fra la riprovazione universale e la necessità di sopravvivere, aveva decretata la scarcerazione di molti condannati per i fatti del 1848. Ma mentre per le figure minori aveva disposto il domicilio coatto o la vigilanza di polizia, per i soggetti più pericolosi, aveva deliberata la deportazione e l'esilio perpetuo dal regno.
Con Settembrini, Poerio, Argentino, dell'Antoglietta, Raffaele Mauro, Vito Pucaro, Giovambattista Ricci, Giuseppe Pace e tanti altri, era Domenico Damis. E' noto come i deportati riuscirono a farsi sbarcare in Irlanda, anziché in America, e come venuti a Londra, furono accolti trionfalmente dagli inglesi e dagli italiani esuli che vi risiedevano, fra cui Mazzini.
L 'alleanza franco -piemontese preparava la guerra In Lombardia. Crispi con Bertani, Bixio e gli altri preparavano la spedizione in Sicilia.

Domenico Damis informato, venne a Genova e il 6 maggio partì coi Mille alla volta di Marsala.
Da Palermo, nel giugno inviò al fratello Angelo, una lettera che si trascrive e che ora è conservata, in originale al Museo Nazionale di Reggio Calabria, acclusa all'Archivio Plutino.
« Caro fratello,
Sto in Sicilia da un mese e mezzo circa: con chi ed a che scopo non giova dirtelo. Tu ben lo sai. Verrò anche costì fra non guari, e col medesimo intendimento che mi ha qui condotto. Tu apparecchiati a ben ricevermi. Mi precederanno nel passaggio in cotesti luoghi tre miei carissimi amici: Antonio Plutinio Francesco Stocco e Ferdinando Bianchi. Questa mia ti verrà recapitata da uno di loro. Ti metterai in relazione con tutti e tre, e da essi prenderai i concerti e gli ordini di quanto converrà fare. Adoperati a riunire il maggior numero di armati che puoi.

Inviterai alla medesima opera tutti i nostri amici dei vari paesi del nostro Distretto e fuori. Scrivi ai Tabani, agli Oliverio, ai Bruno, ai Balsano, a Luci, a Gramazio, a Severino, ai Migaldi, ai Capparelli e a quanti altri crederai disposti alla nostra im-

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- presa. L 'è questo, tempo di energia e di sacrificio: La vittoria sarà nostra senza fallo, se sapremo fare. Dimenticati per qualche mese delle private faccende. Sola tua cura, unico tuo affare sia per ora la causa del paese. L'acquisto della libertà sarà sufficiente compenso di qualsiasi danno che ti toccherà negli interessi. Vincere o morire è il mio proposito. Sia questo anche il tuo, e di quanti si uniranno con te. Il difetto di armi non vi sgomenti. Ne sarete provveduti a sufficienza ed al più presto. Noi non vi lasceremo operare soli per molti giorni. Ci vedrete arrivare quando meno il pensate. Se a rendersi padroni della Sicilia ci bastarono quindici giorni, immaginate se a torre le Calabrie ai Regi ci abbisogneranno degli  anni... Siate pur certi che nessuna impresa è difficile per un Condottiero Come Garibaldi; e per prodi soldati come i Cacciatori delle Alpi.

Addio. Ricordati che la pruova più grande che tu possa darmi del tuo affetto sta nella energia con cui seconderai la nobile impresa alla quale mi sono Consacrato. Addio. Ama il tuo fratello Domenico ».

Ma Lungro era tutta protesa al momento della prova, sicche, allorquando il Comitato Centrale(insurrezionale ) della Calabria Citeriore, con ordinanza del 4 luglio dispose di «mobilizzare (sic) contingenti illimitati di uomini determinati ad ogni evento, volenterosi, provvisti di armi alla meglio che si può », nominando capo militare (il nomc era: capo legionario) delle forze di Lungro e S. Sosti, Angelo Damis, questi si trovò a disporre, solo a Lungro di ben 500 volontari.

I Cinquecento vennero organizzati in 5 compagnie comandate rispettivamente da: VINCENZO STRATIGO', PIETRO IRIANNI, PASQUALE TRIFILIO, GIUSEPPE SAMENGO, CESARE MARTINO.

Le signore prepararono una vistosa bandiera tricolore ornata dello scudo sabauda, in cui, i bordi e la croce erano ottenuti con i galloni argentati in uso per i costumi albanesi femminili. Alfieri ne furono Frega Andrea (Ndresa) e De Marco Raffaele (Racciappa, che aveva 18 anni). Polvere, cartucce, acquavite, furono offerte da chi ne aveva.

Giuseppe Pace, ( albanese di Frascineto) da Castrovillari, che nel '59, dopo lo sbarco in Inghilterra era corso a fare la guerra in Lombardia e nei Ducati, era stato inviato da Gari- 

 

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baldi in Calabria per cooperare alla rivoluzione. Il Comitato di Cosenza gli assegnò la difesa della linea di Castrovillari, per evitare che si ripetessero gli errori del 1848. Pace si diede ad organizzare il reggimento di cui i 500 lungresi furono la parte più cospicua, sia per numero che per ardimento.

Nelle gole di Campotenese, presidiate dalle forze di Lungro, mentre Pace personalmente era a Tarsia, passarono in ritirata i generali Cardarelli e Ghio arresisi a Cosenza e Soveria Mannelli.Il 2 settembre, con i pochi del suo Stato Maggiore, di cui faceva parte Domenico Damis, passò Garibaldi diretto a Rotonda.

Già Lungro per la partenza dei 500 era spopolala di uomini validi, ma i pochi rimasti, con molte donne, guidati da Gabriele Frega, accorsero a Castrovillari per presentare al Dittatore, un vibrante proclama a stampa compilato dal Frega stesso. Il reggimento andò ingrossandosi fino a diventare Brigata sotto il comando di Giuseppe Pace, e la legione (o battaglione) lungrese divenne reggimento, essendosi arricchito delle forze di Frascineto, Cassano e Civita, comandate da Vincenzo Luci.

Durante la marcia verso Napoli, avvenne un episodio che va segnalato. Il reggimento lungrese che aveva l'incarico di tenere dietro alle forze regie in ritirata e sorvegliarle, ne raggiunse la retroguardia a Castelluccio. Di queste faceva parte un tal Lazzaro M. da S. Benedetto UIlano. Era costui un con- dannato a 30 anni di galera, per avere partecipato alla rivolta  di Cosenza del marzo 1844. Nel 1848, chi sa come adescato dal Borbone, venne liberato e accettò di venire in Calabria e suscitarvi la reazione contro i liberali, ma fu riconosciuto a Spezzano Alb. e arrestato. Ebbe salva la vita perché l'arciprete Nociti, presentandosi scalzo al popolo, gli ottenne di essere consegnato al potere giudiziario rivoluzionario che poco dopo decadde. Da un appunto di G. Mortati, illustre patriota e scrittore, risulta che il Lazzaro M., durante la reazione, fu un atroce persecutore dei liberali.

A Castelluccio il Lazzaro, fu riconosciuto dal lungrese Francesco Balzano alias Zingaro che era stato fra i quarantottisti di Campotenese e che per sfuggire alla persecuzione che ne seguì, si era in seguito ritirato in un podere lontano dal paese, in montagna, nei pressi della Madonna del Monte, vi-

 

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vendo solitario e sempre in allarme.

I due, nel disappunto reciproco dell'incontro, ebbero uno scambio di invettive piuttosto violento La sera il Balzano venne aggredito e ferito. ma messo mano alle armi, ingaggiò un vero e proprio duello, nel quale riuscì a prevalere, uccidendo il Lazzaro.

All'alba del 1 ottobre, sul Volturno, troviamo il reggimento al cui comando si è posto il Colonnello Domenico Damis, incorporato nella 16. Divisione Cosenz, sotto le mura di Capua, mentre la brigata Pace è a Caserta donde Garibaldi la spostò la mattina del 2. Questa disposizione risulta sia dai documenti che si conservano, sia dalla esposizione del Guerzoni. La battaglia divampata vide i lungresi e gli altri albanesi albanesi prodigi di valore che indussero Garibaldi a lodare pubblicamente il Damis (decretato di medaglia di argento) e i suoi albanesi con la nota espressione che si erano battuti « come leoni ». Lo ordine del giorno poi diceva che il reggimento albanese si era «battuto splendidamente». Esattezza storica ci obbliga a ricordare che la brigata Pace, dal canto suo, operò valorosamente ai ponti della Valle e a Caserta Vecchia, secondo gli ordini fulminei del Dittatore. E' noto che i componenti della brigata Pace e del reggimento albanese, all'atto della smobilitazione, furono, a loro onore, esentati dall'obbligo di versare le armi, con cui rientrarono invece alle proprie case. I lungresi ebbero numerosissimi feriti e alcuni morti. Sul numero di questi ultimi mancano i particolari e nomi. Il Groppa che scriveva nel 1912, ma aveva attinto notizie molto prima, riferisce che siano stati tre.

 

1866

 La III guerra di indipendenza vide molti lungresi arruolati sia nei reparti dell'esercito regolare, sia nel corpo garibaldino dei Cacciatori delle Alpi. Si ricordano: Martino Raffaele (Zinozicchio) e Leccadito Angelo (Cavallegiero) per l'esercito; e Cesare Martino e Pietro Irianni, per il Corpo Cacciatori. 

 

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CONSIDERAZIONI SUGLI AVVENIMENTI NARRATI

 

Da questi cenni sulle vicende lungresi, nel travaglio risorgimentale della Patria Italiana, molto rapidi, ma pur sufficienti per assolvere il nostro compito, senza pretesa di completezza, ci pare che ognuno possa e debba ricavare due conclusioni. La prima è la fedeltà assoluta degli italo-albanesi all'Italia e alla sua Causa. E l'altra: la assoluta integrazione di essi, pur nella artistica sopravvivenza del linguaggio e di alcuni costumi, nella vita, nella storia, nel dolore, nel gaudio e nelle passioni di tutti gli altri italiani.

Pubblichiamo qui di seguito, due canti. Uno composto da Vincenzo Stratigò nel 1857 (l'anno di Pisacane), in cui si ricordano gli avvenimenti del '48. L 'altro composto da Nicola Tarsia nel 1856, mentre era prigioniero a Procida, e quando si incominciava a mormorare che il Borbone volesse esiliare in America molti dei prigionieri.

 

L' ALBANESE

La patria si Lascia, si abbandona, ma non si oblìa -(Niccolini)

 

Ho fiero il guardo, l'alma sincera

Mi freme al petto virtù guerriera
lo nacqui, io moio pel mio paese
Sono Albanese
I prenci audaci nel rio livore
Spartirmi il sangue, ma non già 'lcore
Iddio concordia nel cor mio stese
Sono Albanese
Dal suol materno del dolce Epiro
I miei grand'avi un dì partiro
Partir piangendo dal bel paese
Sono Albanese
Lasciar nell'ira della sventura
Dei padri antichi la sepoltura
Piantar sui colli il bel paese
Sono Albanese
Là geme il cielo, qui rugge il vento,
Ripeter parmi un caro accento
All'arni, all'armi, o mio paese
Sono Albanese
O dolci campi, o mio giardino
Un di festanti sul mar vicino
O santi altari del mio paese
Sono Albanese

O cara Italia, o Italia bella
Tu mi accogliesti come sorella
Nel dolce seno del bel paese
Sono Albanese
Udii fanciullo dai miei maggiori
Di nostre pungne gli antichi allori,
E un'ira santa il cor mi accese
Sono Albanese
Lo Scander mio che in sacra guerra
Di turco sangue bagnò la terra
E vincitore tornò al paese
Sono Albanese
Scander che al lampo di sue pupille
Fugava i turchi a mille a mille
O sol raggiante del mio paese
Sono Albanese
Io nacqui al pianto, io crebbi all'anni
La morte affronto al suon dei carmi
Morrò, pugnando per mio paese
Sono Albanese
Altro non ebbi per mio retaggio
Che un cor fremente, un gran coraggio
Mi suona al labbro un dir cortese
Sono Albanese

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Ho guerra al guardo, ho morte al viso;
Ma al cuor mi parla un paradiso
Mi suona al labbro un dir cortese
Sono Albanese
La fede antica, il patrio amore
Mi scalda il petto, mi accende il core
lo spargo il sangue pel mio paese
Sono Albanese
Non ho ricchezze, sprezzo il denaro
La spada impugno del mio Bozzaro
Bozzar. che è gloria del mio paese
Sono Albanese
Nel quarantotto nell'ira santa,
Quando la legge dal re fu franta,
Io presi l'arma del pel mio paese
Sono Albanese
Sol'io sul Crati al patrio squillo
Innalberava il mio vessillo,
Scossi le genti del mio paese
Sono Albanese
Là di Sant' Angelo sull'erto colle
Fei l'oste iniqua di sangue molle,
Là colse un lauro il mio paese
Sono Albanese
Nelle pianure di Camerata
Bea mille regi ho debellato,
Ed io sol uno del,mio paese
Sono Albanese
Lungro sorgea, sorgea Spezzano
Acquaformosa coll'anni in mano
All'armi corse il Platacese
Sono Albanese

San Giorgio, Firmo, San Costantino
Pugnar sui colli di San Martino
Pur Frascineto all'anni scese
Sono Albanese

E San Demetrio e Macchia altera
Spiegava all'aura la sua bandiera
Tuonava d'armi Campotenese
Sono Albanese
Là nella valle di San Martino
Pugnai da prode, ma fui tapino
Addio vessillo del mio paese
Sono Albanese
O Chiodi, o Tocci o Mauro altero 

Vi han pesto il capo, non già il pensiero
O puro sangue del mio paese
Sono Albanese

O fior di Grecia, o sommo amore,
Da voi si apprende come si muore
O nomi eterni del mio paese
Sono Albanese
Tu ancora Milano, tu ruoti il brando
Sol contra l'empio forte gridando
Muori, o tiranno del mio paese  
Sono Albanese
Santa la causa, santo il desio
Che arde e m'accende fulmin di Dio 
Fulmina l'empio del mio paese 
Sono Albanese
E tu codardo mi ascolti e ridi
Tu che la Patria tutta conquidi
Tu sei bastardo del mio paese
Sono Albanese
Tu calchi l'ara del suol natio
La Patria io salvo col sangue mio
Va, maledetto il ciel ti rese
Sono Albanese
Tu non uccidi con tua possanza
La mia virtude, la mia costanza
Io nacqui, io moro pel mio paese
Sono Albanese
Va maledetto, va maledetto
nessuna terra ti dia ricetto
Tu sei ribelle del mio paese
Sono Albanese
Quando Busacca di cor pupillo
Spiegò ver Lungro il suo vessillo
Allor Scander nel cor mi scese
Sono Albanese
Suonar le trombe le schiere strane
Ed io sonava le mie campane
All'anni corse il mio paese
Sono Albanese
Del patrio amore al gran ruggito
Tosto Busacca fuggì atterrito
Pari a colomba il vol riprese
Sono Albanese
Avverso al tempo, avverso al mondo
La sol virtude mi fa giocando
Vibro scintille pel mio paese
Sono Albanese
Sorse fra l'arni il mio pensiero
Mi freme al petto valor guerriero
Piango le piaghe del mio paese
Sono Albanese

 

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"'Fra gente ignota sfido il periglio
Mi manca il pane nel duro esiglio
Patir mi è dolce pel mio paese
Sono Albanese
Purtroppo fermo fra le catene
Soffro, nè cedo fra tante pene,
Son vero figlio del mio paese
Sono Albanese

Pel giusto e santo, pel ver combatto
Sospiro il giorno del mio riscatto
Sorgi, o vessillo del mio paese
Sono Albanese
All'armi, all'armi che santa è l'ira
Che la sventura, che il Ciel m'ispira
All'arni, all'armi o mio paese
Sono Albanese

                                             V. STRATIGO'

 

GLI EMIGRANTI IN AMERICA

- Addio all'Italia -

 

Incantevole cielo natio,
Sol d'Italia il tuo vivo splendor.
Monti, mari vaghissimi, addio!
Addio terra diletta al Signor!


Addio, templi, ove preci ferventi
Gli avi nostri all'Eterno innalzar,
Ed 8 noi pargoletti innocenti .
A temere il gran Nume insegnar.


Addio, campi, ove sempre verdeggia
Con l'olivo l'alloro immortal,
E sul fusto sì piega e biondeggia
La ricchissima spica vital.

Addio, valli, ridenti colline,
Ove i canti rapiscono il cor,
Quando vaghe fanciulle divine
Van sciogliendo canzoni d'amor.


Noi percossi dal fato crudele,
Perigliamo la vita sul mar :
Nuove terre, fidando alle vele,
Terre amiche speriam di toccar.


Genitori, fratelli, sorelle,
Dolci amici dei giorni primier,
Italiane contrade sì belle,

Sempre a voi volgeremo il pensier!

N. Tarsia - Bagno di Procida 1856