GLI ALBANESI VENGONO IN ITALIA E A LUNGRO
1 . I, Intanto nell'Europa orientale si verificavano avvenimenti di portata mondiale, ben noti, ai quali occorre però riferirci, sia pure rapidamente, giacche ad essi è legata la storia di Lungro, con effetti che durano tuttora.
I vari popoli della penisola balcanica: i greci, albanesi, serbi, rumeni, bulgari ecc., che avevano conosciuta la civiltà ellenica e quella romana, già prima della caduta di Costantinopoli ( 1453) erano o asserviti, o stavano per esserlo, da parte della potenza islamica turca, la cui dinamica, determinata da tanti fattori, fra cui potentissimo quello teocratico, ne aveva fatta un'orda aggressiva quanto mai alcun'altra, guidata da una gerarchia fanatica e avida, desiderosa di sostituirsi ad ogni altra potenza umana, rendendo tributari dei discendenti del Profeta tutti i popoli che non erano seguaci di Maometto.
Sono note le alterne vicende fra il declinante Impero bizantino e la Sublime Porta, nonché quelle intercorse fra i turchi e le nazionalità che venuta meno la potenza imperiale, avevano dovuto provvedere da se alla ulteriore difesa dei loro vi-
Pag. 22
...
A noi preme dire che nei primi decenni del secolo XV lo impero islamico, era giunto a minacciare di distruzione addirittura, il mondo cristiano, che aveva raccolto e spiritualizzata l'eredità civile delle genti egizie, greche e romane. Ma un popolo solo, quello albanese, amato e diretto da un uomo solo, Giorgio Kastriota detto Skanderbeg, seppe da solo, opporre tali ostacoli alla potenza turca, da tenerla impegnata e mortificata per circa un trentennio. Ne fiaccò l'impeto iniziale, la ridusse alla ragione diplomatica, scosse l'Europa dallo spavento suscitando in essa i germi che un seco]o dopo dovevano generare a vittoria di Lepanto.
Sarebbe superfluo parlare diffusamente di Skanderbeg; ma i fini della nostra narrazione, è necessario dire che egli fu ritenuto da Pontefici, da Re, da politici e da storici il salvatore dell'Europa e della Cristianità, e certo il più gagliardo avversario della dilagante conquista islamica. Il Sultano stesso ebbe a dire che senza il Kastriota avrebbe potuto mettere il turbante in testa al Papa e la mezzaluna sulla basilica di S. Pietro.
Morto Skanderbeg, parve che fosse deciso non solo il destino dell'Albania, ma anche quello dell'Europa cristiana. I turchi dilagarono nella terra dell'Eroe fino ad Alessio; ne scoperchiarono la tomba e ne saccheggiarono le ossa, non per oltraggio, ma perché erano convinti che possedendone qualche frammento, a guisa di amuleto, divenivano imbattibili come il loro Grande Nemico.
Tuttavia nel territorio centrale della piccola nazione, si organizzò una resistenza disperata. Fiorirono molte leggende. Si disse che il cavallo del Condottiero non tollerava che alcuno lo montasse, e scorazzasse di notte galoppando per la campagna, emettendo alti nitriti e recando in arcione una grande ombra luminosa.
La resistenza che durò fino al 1480, fu diretta collegialmente da Dukagini, da Musacchio e dai rappresentanti di Venezia. Essa fu quanto mai dura e sanguinosa, animata dalla necessità di evitare ogni trattativa coi turchi che erano noti per non rispettare i patti della resa. Infinite volte alle trattative di capitolazione o di tregua erano seguite proditorie stragi. Anche alla resa della fortezza di Kruia. negoziata a condizione che gli
Pag. 23
albanesi fossero salvi nellavita e nell'onore, il sultano fece uccidere gli uomini e deportare le donne e i fanciulli.
Secondo le narrazioni del Barlezzio e dell'Antivarino, in tutti i villaggi tenuti dagli albanesi, le donne erano l'anima della resistenza. Esse come novelle Valkirie, ogni otto giorni, nelle piazze, danzando, cantavano le lodi di Skanderbeg e incitavano gli uomini alla resistenza.
Di tutta questa meravigliosa tradizione non tutto deve essere leggenda se ancora oggi in alcuni nostri paesi di Calabria sopravvivono come rito ricorrente ogni anno, cerimonie in cui le nostre donne in atteggiamento più di malinconica commemorazione, che di festa, danzano le così dette Vallie, cantando accorate canzoni che ricordano le stragi e l'abbandono della Morea, le gesta del Kastriota, il ritorno, o la partenza del guerriero. E ancora alcuni lustri or sono, in varie località della Toskeria si potevano raccogliere frammenti poetici che ricostruiti, sia pure attraverso grandi difficoltà, davano nell'insieme, un
Lo Stemma
di
Giorgio Kastriota Skanderbeg
organico, o quasi, componimento, impossibile a trascriversi in albanese, per la miriade di variazioni fonetiche e di pronuncia, ma che tradotto in italiano, e sempre con molta licenza di organamento e di interpretazione, suonerebbe, nella sostanza come segue:
Pag. 24
PIANGONO LE DONNE
Chi più difenderà la nostra terra
Or che I 'Eroe è morto ?
Chi potrà cavalcare il suo cavallo
Che si rifiuta ad ogni valoroso cavaliere?
Dalla tomba d'Alessio scoperchiata
L 'ossa del Re involate
Ornano in amuleti d'oro i petti ai barbari
Perché li faccian forti
contro i suoi stessi figli.
Chi ne torrà a noi povere donne
Di servire ai tiranni
Chi ci risparmierà d'esser vendute
Come bestie che figliano?
Ma ecco, ecco, l'Eroe ritorna
Ed alla testa del manipol fido
Ancor lancia il suo grido:
Avanti avanti.
Giorgio Katriota
da un busto
conservato in Lungro
(Proprietà Belluscio)
Pag. 25
Dopo a morte di Gorgio Kastriota Skanderbeg, avvenuta in Alessio nel giugno del 1468, incominciò l'esodo dalla piccola terra balcanica, che era stata teatro, di quel clima eroico, in virtù del quale gli albanesi per circa trenta anni, avevano opposto alla Porta Sublime una resistenza inverosimilmente dura ma sempre vittoriosa.
Gli sventurati cristiani che sfuggivano alle orde di Maometto II, si dirigevano verso le vicine coste italiane. Erano sopratutto donne che affidate a qualche uomo della stessa « fara » venivano portate in salvo. Essi scelsero a protettrice la immagine della Madonna di Costantinopoli, che fu detta ODIGITRIA. Ancora oggi, in tutti i paesi albanesi di Italia, si venera tale immagine, la cui festa ricorre in primavera.
A Lungro si dà particolare importanza alla festa, tanto che per antica tradizione, ormai declinante, la vigilia è consentito a tutti di asportare armi da fuoco, per partecipare ad una gara di tiro al bersaglio. La gara è dotata di premi consistenti in prodotti dell'agricoltura e della pastorizia.
Noi ravvisiamo in questa manifestazione, una ricognizione dell'abilità degli uomini nel maneggio delle armi, per essere pronti a difendere la propria terra dalle temute sorprese dei mussulmani, così come si verificava nella terra di origine.
Non risulta che in Lungro siano avvenute immigrazioni dei primi gruppi di profughi. Ciò fa supporre che gli immigrati nostrani appartenessero in massima parte a quei contingenti che dovettero espatriare incominciando dal 1480 in poi. Circa dodici anni dopo la morte di Skanderbeg.
I casati che ricorrono negli antichi documenti, a dire del De Marchis, sono 17 e precisamente: . MATTANO', JEROJANNI (poi Irianni), CAGLIOLO, BELLUSCIO, PREVATA' (poi Loprete) MUSACCHIO, VACCARO, BRESCIA, DAMISI, CUCCI, GRAMISCI, MANISI, MARCO, CORTESE, MATRANGA (poi Matrangolo), TRIPOLIS, STRATIGO'.
E poi che gli stessi sono nel novero di quelli che la più accurata albanologia ha rintracciato come prevalenti fra i capi dell'Albania centrale che per oltre un decennio, dopo la scomparsa del Capo, sotto la guida di Dugagini. di Musacchio e
Pag. 26
dei rappresentanti veneziani, resistettero alla invasione turca, nonché fra quelli che operando la rivolta di Chimara, accolsero Giovanni Kastriota nel 1481, si deve dedurre che gli albanesi venuti a Lungro fossero, come capi o come gregari, fra quelli più compromessi nella. resistenza decennale postuma alla conquista di Maometto II.
La conferma, del resto, viene anche dal primato sempre riconosciuto a Lungro da parte delle altre comunità albanesi di Calabria Citeriore e dal fatto che il Principe di Bisignano, Geronimo Sanseverino, signore di Altomonte, in data 9 marzo 1486, su proposta dell'abate del monastero di Santa Maria de Ungro, prendeva atto della recente installazione dei profughi albanesi nel Casale, dava il suo benestare e stabiliva in pagamento del diritto di focativo una somma complessiva di ducati venti all'anno.
Intanto sotto la blanda tutela degli abati, Lungro andava sempre sviluppandosi.
E' interessante riportare l'opinione del De Marchis, secondo il quale, la prolificità di sole 17 famiglie; e la loro superiore coltura e attività, abbiano determinato nel Casale, in breve tempo, la prevalenza dell'elemento albanese su quello autoctono che rimase assorbito nel gruppo etnico sopraggiunto.
Noi non possiamo che accettarla, tenuto conto che il De Marchis stesso fu uomo di profonda dottrina e di documentata precisione, che disponeva di molti mezzi di informazione, fra gli altri di un archivio familiare ricco come poteva esserlo quello di una famiglia che dal secolo XVI aveva avuto alti prelati ed altri uomini di studio. (Del resto vive ancora chi ricorda la mole delle vecchie carte di casa De Marchis, distrutte solo pochi anni or sono).
Riteniamo però di dovere aggiungere che albanesi sono anche altri cognomi che parrebbero di altra origine, come Pisano, Vicchio, Frega, Capparelli, Rennis e tanti altri, che trovano riscontro anche nella onomastica topografica in Albania e che evidentemente, dovettero giungere a Lungro in tempi posteriori e forse per spostamenti fra le colonie già stabilite in Italia. Del resto, lo stesso De Marchis parla di immigrazioni posteriori di genti, attratte a Lungro dal miraggio di maggiore benessere.
Pag. 27
Nel 1525 i basiliani abbandonarono il monastero che si trasformò in Commenda a disposizione del Pontefice. Gli eredi Bisignano, subentrato il clero secolare, tentarono. di revocare i benefici già concessi, ma i lungresi ricorsero al tribunale e frustrarono il tentativo. Rimasero obbligati alla carresponsione di tre carlini per fuoco, e rimasero liberi. Si rileva dal De Marchis come gli albanesi di Lungro, prosperando in modo straordinario, nel 1546, assumevano già il nome di Università prerogativa chc accordava il diritto di eleggere nel proprio seno gli Amministratori, ordinare il particolare catasto e disporre delle rendite a norma dei bisogni comunali. Nel l547 gli albanesi di Lungro vi erigevano una chiesa parrocchiale, onde esercitare, nel proprio rito le sacre funzioni e la dedicavano al protettore S. Nicolò di Mira, forse in rimembranza della cattedrale di Alessio, ove furono deposte le ossa del loro Principe Skanderbeg, ed il cittadino Sacerdote Don Antonio Cortese, il quale viveva nell'anno 1601, a sue spese fondava un piccolo monastero poco distante dall'abitato, e lo apriva ai Padri carmelitani, assegnandogli in dotazione molti beni, poi devoluti ai. Dominicani di Altomonte, come lo attestava una iscrizione esistente in quella chiesa.
Nella prima metà del 600, si incontra spesso un Francesco
Pag. 28
Campolongo da Altomonte, barone di Firmo e Lungro. Ma abbiamo motivo di pensare che il titolo fosse del tutto nominale, anche se connesso a qualche possedimento terriero, perché non c'è alcuna traccia di una vera e propria giurisdizione civile o politica. E finalmente nel 1768, gli albanesi di Lungro eran per-
* * *
La Madonna di Costantinopoli
nella omonima chiesa di Lungro
Sono notevoli l'altare, il tabernacolo
e il baldacchino
* * *
venuti a tale stadio di sociale fermezza, da imprendere arditi e tenaci, la difesa del proprio rito, fino a riportare completo trionfo dalla Santa Sede, contro il Pescara, Duca della Saracena il quale aveva il dominio baronale di Lungro, per effetto di acquisto dai Bisignano, con atto del 1531. Il dominio di questa famiglia, sì spiegò principalmente attraverso la giurisdizione criminale, giacche Lungro era amministrata dai propri Eletti e i feudatari ne ricavavano ben poco. Prova ne siano i facili frequenti trapassi da un signore all'altro, nonché la precisa espressione, dal 1546 in poi di « Universitas Lungri »; e infine la sopramenzionata quistione riguardante il rito liturgico.
Occorrerebbe un più approfondito studio, almeno in merito al periodo unico in cui si dicevano signori di Lungro il
Pag. 29
Campolongo e il Pescara.
A proposito. del Pescara, e circa le ragioni perché questo Duca spiegava la sua baronale giurisdizione sul Casale di Lungro, il De Marchis dice:
"Il territorio Badiale diviso dal Fiume Tiro da quello di Saracena era troppo angusto ad offrire tutti i mezzi da sussistere alla popolazione, la quale di anno in anno progrediva nel suo incremento, quindi fuvvi astretta ad impetrare da quel barone delle terre da dissodare, onde renderle proficue alla agricoltura. -Ottenne infatti delle concessioni sotto svariati titoli riconosciuti dalla legge, e mentre il Feudatario da un canto ritraeva il suo utile dall'aumento della rendita, gli albanesi dall'altro, laboriosi e robusti per natura, fertilizzarono una contrada quasi tutta irrigabile, da cui proventarono col tempo immensi vantaggi. Nel successivo poi essi divennero assoluti padroni tanto in forza di definitivi acquisti e di enfiteutiche censuazioni, quanto per diritti conseguiti dalla Divisione Demaniale » .
Comunque sia, si può affermare con sicurezza che i lungresi seppero resistere ad ogni tentativo di giurisdizione civile e politica dei feudatari, dopo l'allontanamento dei monaci basiliani, profittando della situazione feudale intricata di quei tempi, resa più difficile quì, dalla esistenza della commenda abbaziale di S. Maria delle Fonti, di cui erano investiti, di solito, alti prelati.