Lungro, Settembre 1959

 

L'Eparchia ortodossa greco-albanese di Lungro si accinge a festeggiare quarant'anni di attivitą, in mezzo alle sue popolazioni, sparse in Calabria, Lucania, Puglia, Abruzzo. La fiorente vita spirituale e liturgica, l'attivitą culturale e l'attaccamento alle avite tradizioni bizantine e albanesi, la coscienza. sempre pił sentita. d'un ruolo di grande importanza nel mondo cristiano, ai fini di una maggiore comprensione tra le due concezioni di vita, orientale ed occidentale, questi e molti altri fatti, dimostrano la sapiente lungimiranza della venerata memoria di Papa Benedetto XV, che la volle, la creo e la protesse e della S.Congregazione per la Chiesa Orientale, che, ogni giorno di pił arricchisce i villaggi della Eparchia, di opere veramente insigni.

In questo medesimo anno 1959, si celebra in Italia il centenario del Risorgimento e non si puņ passare sotto silenzio il grandioso contributo dato alla Causa da questi Albanesi della Calabria, tra i quali moltissimi i "Papades" i Sacerdoti greci, e tutti, indistintamente, sacerdoti e laici, alunni dei grandi Vescovi greci Bugliari e Bellusci, educati nel Pontificio Istituto di S. Demetrio Corone. I nomi dei Baffa, dei Mauro, degli Scura, dei Damis, degli Stratigņ, dei Bellizzi, dei Bellusci, dei Dorsa, dei Placco, dei Basile, dei Camodeca e di tanti e tanti altri, sono nomi illustri e cari alla Patria e a tutti gli Albanesi.

D'altra parte, popolazioni ricchissime di canti e di tradizioni popolari, gli Albanesi di Calabria hanno attirato l'attenzione degli studiosi di dialettologia e di tradizioni popolari dei maggiori centri di cultura d'Europa e d'America. In questi ultimi anni, numerose sono state le pubblicazioni sulla lingua e sugli usi e costumi dei nostri paesi, non solo in Italia e in Albania, ma anche in Germania, in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Bene ha fatto, perciņ, il Comitato pro festeggiamenti, ad organizzare una manifestazione folcloristica e a pubblicare questa piccola raccolta di canti popolari. L'una e l'altra saranno un dono, certamente gradito, per gli illustri ospiti, che verranno ad onorarci.

I nn. 1-2-3-4 ricordano la nostra emigrazione dall' Albania e dalla Grecia, ai lidi d'Italia. Il n. 4 si canta quindici giorni dopo Pasqua, nella Domenica "tόn Myroforon» dalle colline che sovrastano i villaggi e sull'imbrunire. Il n.13 si canta nelle ridde dell' Ascensione ( Analipiis ), nel pomeriggio, prima di recarsi in Chiesa per i Vėllamja. Avviandosi verso la Chiesa, si danza il n. 14, proprio perché il rito si celebra dopo il banchetto comune e si ricorda la triste fine di un traditore, che non mantenne la sua Fede. Il n. 5 e certamente il pił famoso, con tema noto a molti popoli. Popolarissimo anche in Grecia, conosciuto sotto il nome di O Vurkolakas". Nei nostri villaggi e di obbligo, uscendo di Chiesa, dopo il rito dei Vėllamja, sebbene si senta, un pņ dovunque, per tutto il periodo di Pasqua. Queste rapsodie sono tutte del ciclo di Primavera, ciclo particolarmente ricco. Le altre sono del ciclo matrimoniale. I nn. 7-10-11 si cantano durante il fidanzamento.

L'8 e u 9 rispettivamente quattro giorni prima del matrimonio e il giorno dell'Incoronazione. Il 12, dopo il matrimonio, con la «Vallja mbė kangjel» (danza particolare).

Alcuni di questi canti, in tutto o in parte, sono stati gią pubblicati dal De Rada, dallo Scura e da altri, per non parlare delle recenti pubblicazioni fatte in Albania, all'Universitą di Tirana.

Moltissimi sono ancora inediti. Il n. 7 vede la luce, per la prima volta, ed appartiene alla raccolta fatta dal Prof. Dorsa, nella prima metą del secolo scorso, a Frascineto, e di cui io conservo il manoscritto.

Non č il caso di parlare dei Vjershė e Graxeta, perché, di essi, ancora oggi si possono raccogliere, nei nostri paesi, a migliaia. Ho inserito infine il rito dei Vėllamja e Motėrma, con la parte popolare e l'azione liturgica greca, cosi come si svolge, senza nulla aggiungere o togliere, anche perché questo rito tende a scomparire.

Sono sicuro di aver fatto cosa gradita a tutti gli Albanesi.

Papas Prof. GIUSEPPE FERRARI

Teologo dell'Eparchia

Docente all'Universita di Bari .

 

Vdekja e Skanderbekut

 

Shkoi njė ditė mjegullore

mjegullore e helmore,

foka qielli doj tė vajtonej,

pra tue u dijtur me shi

nga tregu njė thirmė u gjegj,      5

ēė hiri e shtu lipin

ndėr zėmrat e ndėr pėlleset !

Ish Lekė Dukagjini:

ballėt pėrpiq mė nje dorė,

shqir lėshte me jatrėn:              10

-"Trihimisu, Arberi !

Eni zonja e bularė,

eni tė vapėhta e ushtėrtorė,

eni e qani me hjidhi !

Sot tė varfera qėndruat,           15

pa prindin ēė ju porsinej,

ju porsin' e ndihnej.

E me hjenė e vashavet,

me harene e gjitonivet,

as kini kush tė ju ruanjė.         20

Prindi e Zoti i Arbėrit

ai vdiq ēė somenatė;

Skanderbeku s'ėshtė mė"

Gjegjtin shpitė e u trihimistin,

gjegjtin malet e u ndajtin,        25

kambanert'e qishėvet

zune lipin mbė vetėhenė;

po ndėr qiell tė hapėta hinej

Skanderbeku i pa-fanė!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La morte di Skanderbeg

 

Passo un giorno nebbioso,

nebbioso e malinconico,

quasi pianger, parea, volesse il cielo.

Venne il novo mattino.

tetro, pioviginoso;

dalla piazza s'udi tremendo un ululo,

sparse nei cuori il gelo,

nei palagi porto .lacrime e lutto.

Plorava urlando Leka Dukagjino,

con una man si percotea la fronte

e con l'altra strappavasi i capelli:

-Scuoti dal piano al monte

tutti i cordihi tuoi, scuoti, Albania,

agli occhi nostri tutto

s'oscura il mondo: Skander non e pił!

Matrone e cavalieri qui accorrete,

venite qui, soldati e poverelli,

il Grande a calde lagrime piangete.

Orbi oggi tutti siete

del padre, della guida, dell'aiuto;

oggi avete perduto

quei che vi custodia

l'onore delle vergini,

dei villaggi la pace e l'allegria.

Grave giorno di lutto!

Stamane č morto il Principe,

il padre d'Albania,

s'oscura il mondo tutto:

Skanderbeg non č pił! -

Alla feral notizia

i palagi tremar dai fondamenti,

apriro i fianchi i monti,

cadder le rupi e seppellir le fonti;

dai campanili delle chiese in lenti

tocchi annunziar le squille il grave lutto.

In alto, dell'empireo

s'apri l'etereo velo

e Skanderbeg magnanime

e sventurato in gloria entro nel cielo.

 

 

                           2) Shqiteza

 

Shqiteza e bardhė e bardhė

lėure fėrshėllimzėn,

tė shkrehet dejti

ka ana e desprit,

tė nisen anizit.                              5

E par' e anivet

ėshtė ngarkuar pjono trima;

e dyt' e anivet

ėshtė ngarkuar pjono vasha;

e tret' e anivet                             10

vjen pjotė bukė e verė.

Ato nisen e mė bien

ndė pėrroit Kalavrisė.

Fanmira mbi katund

sbardhulonjėn vashazit               15

bilat e tė huajvet

ndėr rehjet e ruanjėn.

E nje mall i fshehurith

i shprishet ndė zėmėrt

e njė lotė e bukurėz

i pushtron syzit!

                2) Il cigno  bianco

 

Alla canzon del candido

cigno s'acqueta il mare,

e le galere profughe

s'apprestano a salpare.

La prima colma di fanciulli, ed era

di giovanette piena la seconda,

ma la terza galera

carca di vettovaglie e seteria.

Staccasi dalla sponda

e innanzi va la compagnia dolente

verso i Calabri lidi in occidente.

Ma allor che le straniere

donne in sembiante lieto

accorreranno per vedere i profughi,

un affetto segreto

ai peregrini il core

gonfierą di dolore,

e di soavi stille

si veleran le tremule pupille.

 

 

 

       3) Tė Fa'a Katundit

 

Gjith'e veshur ndėr tė zėza

duall njė vashė ka hora,

vate marrė uratzėn

uratėn e dheut tė tyre.

Pėrpoqi mėnin e zi                       5

e kėputi degė tė fjetėm;

pėrpoqi mollėn e kėputi

dega me molla t'erma.

Mbjodh lule ndė prėhrit,

prana u vuri tue qarė                   10

prosopin'e dheut tė tyre:

- “O tė fala, dheu ynė,

tė fala, sė mė te lė

e s'kam tė tė shoh u me !

Nėng kam dhe u ku tė vete,        15

pa njė horė ku tė mėnojė,

pa njė shpi te ku te mbjidhėm.

Kėto dega e kėto lule

veshken si tė tė jenė larg,

fare mallin dhe mė nxierrė.         20

 

 

 

 

      3) Addio al Villaggio

 

Avvolta tutta in luttuoso ammanto,

dalla cittade una fanciulla uscģo;

con le pupille bagnate di pianto

prese commiato dal suolo natģo.

A un gelso moro s'accostņ per via

e ne divelse un ramoscel frondoso;

poi vide un melo e colse, come pria,

carco di pomi un bel ramo odoroso.

E molti fiori nel grembial raccolse:

i belli, i cari fior del patrio suolo;

indi al paterno loco si rivolse,

proruppe in pianto e diede corso al duolo:

- "Addio! per sempre addio! Terra natģa,

 terra dei padri miei che lieta amai,

salve, ch'io t'abbandono, o patria mia,

o patria mia, non ti vedrņ pił mai!  

Ed in balia del fato, alla malora,

raminga me ne andrņ di villa in villa,

né fia cittą dove trovar dimora,

né tetto ove raccogliermi tranquilla.

Ma questi rami del mio suol natģo

e questi fior, come saran lontani,

pria d'appagare il tenero desģo

avvizziranno, ahimč! tra le mie mani...

 

        4) Ngushti Moresė

 

Ish njė Turk shumė i keq,

ish me njė tė lidhurith.

Mosnjerģ e guxon' t'i fjit,

po njė vash'e Arbėreshe

kuturisi e m'i foli:  

- “Zot, ndo je ti aq i keq,               5

do tė vėmi njė ngusht bashkė:

Cili nesh tė dirė

mė tė pirė qelqe mė vere?

Ti vė pra tė lidhurģn   

e u vė shtran' e terjorģsur               10  

me gėlpenje tė mundashtė”.  -  

Turku dish e qe kutjend,

vasha porsiti kriatet:

- “Kur t'i shtini verė Turkut,

pjot ju kupėn mė ja bėni;              15

kur mė shtini verė mua,

pjot kupėn mos m'e bėni,

pikėn uj' edhe m'i shtini“ –

Pra ndė mest tryesės,

ajo e kuqe e tuke qeshur,             20

mbė tė marrė qelqin me verė

i shtu mbrenda borė tė bardhė.

Turku i marrė nga ajo harč,

tue pirė e mbjuar kupėn,

dal ndė thronit u qikar,                 25

atjč i qėlloi gjumė.

Zonja vashe tė lidhurģn

armatosi e u nis me tė,

dreq zallit detit.

Hipi ani tė rahur erės,                  30

pėrtej detin u prė.

Po si ra te zalli huaj,

ndėnj' si e stisurėz

e pėrier detit:

Mori e bukura Moré,                  35

si tė lé u mė sė tė pé !

Atje kam u zotin tatė,

atje kam u zonjėn mėmė,

atje kam edhe tim vėlla:

gjithė tė mbuluar nėn dhé !         40

Mori e bukura Moré,

si tė lė u me sė te pé !

 

 

 

     4) La scommessa della morea

 

Era un Turco assai fiero

e seco avea, legato, un prigioniero.

Nessun avea l'ardire

di favellar con lui; ma l'ebbe l'animo

una patrizia giovane

ed a quel fiero Turco prese a dire:

- Signor, benchč tu sia cotanto altero,

sempre che tu lo vuoi,

poniamo una scommessa fra di noi,

gareggiando al bicchiere,

il vin chi di noi due resista a bere.

Tu metterai in premio il prigioniero

ed io porrņ il mio letto immacolato

di serici serpenti ricamato. -

Della scommessa il Turco fu assai lieto;

ma le sue ancelle ella ammonģ in segreto:

- Allor che al Turco il vino mescerete

colma colma la tazza gli farete,

ma quando a me voi mescerete il vino,

sempre vuota lasciatela un tantino,

ed ogni volta che me lo versate

qualche goccetta d'acqua mescolate. –

Banchetta la donna accesa in viso,

tutta gioia e sorriso

e astuta, pria di bere,

mettea la neve dentro il suo bicchiere.

Rapito da quel gaudio il Turco altero,

bevea le tazze senza prender fiato,

ma il vin lo vinse e gli annebbiņ la mente

e sulla sedia si piegņ accasciato

e vi si addormentņ profondamente.

Le armi ella diede allora al prigioniero,

s'avviarono entrambi verso il mare

e rifugiati sovra un bastimento,

presero il largo con prospero vento

e si fermaron nel lido straniero.

Discesi, al mare le pupille fisse,

stette impietrita la fanciulla e disse:

- O mia bella Morea, dal dģ che ti perdea

io pił non t'ho veduta!

La mamma ivi ho lasciata,

lasciato ho mio fratello; ivi la muta

spoglia del padre mio v'č sotterrata !

O mia bella Morea,

dal dģ ch'io ti perdea

io pił non t'ho veduta !

 

       5) Kostantini e Jurčndina

 

Ish njė mėmė shumė e mirė,

kish nėndė bil hadhjarė

e tė djetėtėn njė vashė,

ēė ja thojėn Jurėndinė (Harėndinė).

Sa t'e kishin mbė krushqi,                   5

vejn' e vinė ndė dhét tė tyre

bil zotėrash e bulerė,

njera ē'erth njė trim i largė.

E jėma me tė vėllezėrit

nėng dojėn se ish keq larg.                10

Vetėm doj e pramatisnej

i vėllau Kostandini:

- "bėne, mėmė, kėtė krushqi"-

- "Kostandin, e biri' im,

ē'ė pramatia jote,                            15

aq larg ti tė m'e shtyesh?

Se nd'e dafsha u pėr haré,

per haré prana ng'e kam;

e nd'e dafsha u pėr helm,

u pėr helm nėng e kam". -              20

- "Vete u, mėmė, e mė t'e siell". -

E martuan Jurėndinėn,

e qelli ndė Veneti.

 

* * *

Erth njė vit keq i rėndė,                25

ēė i kuarti asaj zonjė

nėndė bilt te njė luhadhė

e njė e djetėza bilė

ajo ish ndėr Veneti.

Shpia mė qindroi e zėzė,              30

pa njėri e vetme.

Mbajti lipin dhjetė vjet

pėr tė dhjetėt t'bilzit.

Kur shkuan dhjetė vjetėt,

erth e Shtunia e pėrshpirtė,          35

ėma u nis e va te m'Qishė: 

tek e djathta njė qiri,

me tė jetrėn pėr leshi,

i bardhė, i shpjeksurith.

Nga varr ish njė qiri 

njė qiri e njė vajtim;

po te varri Kostandinit

dy qirini e dy vajtime: 

ulurith, pėrgjunjurith,

rihnej kryet tek ai varr,             45

e tri herė tue shėrtuar,

me shėrtim gjaku tė dhėmbur,

aq sa Qisha u hundua,

m'i thėrrit birit te saj:

- "Kostandin, o biri'im,            50

zgjohu, bir, se jam jat'ėmė!

Ku ėshtė besa ēė mė dhé ?

Te m'siellsh atė bilėn time,

atė Jurėndinėzėn ?

Besa jote nen dhé ....!" -         55

 

* * *

Si u ngris e u mbill Qisha,

pjassi varri n'katrish;

njo, te drita e qirinjvet,

u ngre varrit Kostandini.

Kryeja ē'aj kish te varri

me u bė njė kalė i brimtė,

me tė zėzė paravithe;

guri ēė pushtronej varrin

mė u bėnė njė fré ari.

Vukullat ē'ishin te varri         65 

mė u bėnė njė fréari.

Ai u hip te kali

e si ajrith i zi,

eshtra mbi eshtra,

sipėr krahėvet njė fjuturak

me njė shpatė tė ngjeshurėz,  

iku dhja si duallith

e mė vate Veneti.

Arru pas dijtur

te shpia e sė motrės.                       75

Ēoi ndė shesht, para pėllasit,

tė bilt e sė motrės,

ēė bridhjėn pas ndallandishet.

- "Ku vate zonja jot'ėmė?"  -

- "Ėshtė te vallja pėr ndė horė." -    80

Vate tek e para valle:

- "U gėzuash, e para valle!" . -

- "Mirė se vjen, bir bujari !

Cila tė pėlqenurith ? " -

- "Gjithė tė bukura ju jini,              85

gjithė tė zonė mė e kini,

po pėr mua hje se kini !

Mos m'e patė Jurėndinėn,

Jurėndinėn time motėr ?" -

- "Pėr tė parith, nėng e pamė,       90

pėr tė gjegjurith m'e gjegjtim;

shi' tek e dyta valle!" -

Ardhur tek e dyta valle,

u qas e i pyejti:

- "U gėzuash, e bardha vashe!" -  95

- "Mirė se vjen, bir bujari" ! -

- "Ėshtė me ju Jurėndina,

Jurėndina ime motėr ?" -

- "Ec pėrpara, se m'e gjėn,

me xhipunin llambadhori              100

e me cohė tė vėlushtė." -

Ardhur tek e trejta valle,

- "Kostandini, im vella ! !" -

- "Jurėndinė, lėshou, se vemi,

ke tė vishė me mua ndė shpi !" -  105

- "Po thuam ti vėllau im,

se ndė kam t'vinjė ndėr helme,

vete veshem ndėr tė zėza,

ndė na vemi mbė haré,

unė tė marrė stolitė e mira."         110

- "Nisu, motėr, si t'zu hera." -

E vu vithe kalit.

 

* * *

- Udhės ēė ata mė vejėn,

fėrshellejėn zogjzit:                    115

"i gjalli me t'vdekurin ! "

U pėrgjeq Kostandini:

- "Ai zok ėshtė ēot

e nėng di atė ēė thot". - 

E motra i pruar fjalėn:               120

- "Kostandin, vėllau im,

njė shėng tė keq u shoh:

kraht'e tu tė gjerėzit

janė tė muhulluariz ! -

- "Jurėndinė, motra ime,            125

kmnoi i dufeqevet 

krahtė mė muhulloi". -

- "Kostandin, vellau im,

njetėr shėng tė keq u shoh:

lesht tėnd tė durrudhjarė

ėshtė. tė pjuhurosurith". -

- "Jurendine, motra ime,

mė tė bėnjėn syzit,

tė marrė ka pjuhuri kalit 

e ka drita e diellit." -                 135

Erth kundrela dheut saj:

- "Kostandin, vellau im,

pse drita e t'mi vėllezėrve

edhe t'bilt e zotit lalė 

as duken na dalė pėrpara?" -     140 

- "Jurėndinė, motra ime,

janė pėrtej, thomse, ndė rrolet,  

se erdhėm sonde e nėng na prisjėn." -

- "Po njė shėng tė lik u shoh:

dritoret e shpisė sanė

ato janė t'mbilltura,

po t'mbilltura e tė nxijta"

 

- "Fryn vorea malevet." -

Erdh' e shkuan nga Qisha.

- "Lemė tė hinjė ndė Qishe tė truhem". - 150

Ajo vetėm, shkalėvet lart,

hipi dreq tek e jėma,

- "Hapėm derėn, mėma ime!"-

- "Kush mė je aty te dera?" -

- "Zonja mėma, jam Jurėndina!" -          155

- "Mba tutjč, bushtra vdeke,

ēė mė more nėndė bilte,

e me zėn' e sime bilė,

erdhe ni tė m'marrshė mu." -

- "O hapme ti, zonja mėmė:                  160

vetėm jam u Jurėndina!"-

- "Kush tė suall po, bila ime? -

- "Mua mė sualli Kostandini,  

Kostandini im vella". -

- "Kostandini? ... e ni ku ė" -               165

- "Hiri mb'Qishė e ėshtė e truhėt" -

E jėma zgardhulloi derėn:

- "Kostandini im vdiq ! ! ! "-

U mba e jėma tek e bila,

u mba e bila tek jėma,                       170

vdiq e jėma edhe e bila !  

      

 5) Costantino e Garentina

 

C'era una madre molto buona:

nove nobili figli avea,

e, la decima, una donzella,

che si chiamava Jurentina (Garentina).

Per averla in matrimonio

andavano e venian dalla lor terra

figli di signori e cavalieri,

finchč un giovane da lungi giunse.

La madre ed i fratelli s'opponevano,

perchč da troppo lontan (paese) egli era:

acconsentiva solo e ne trattava

il fratello Costantino.

- Fa', o ,mamma, questi sponsali.

- Costantino, o figlio mio,

cos'č mai questa insistenza

di mandarla cosģ lontano?

Ché se un un giorno io nella gioia la vorrņ,

nella gioia non l'avrņ;

né se un giorno nel dolore io la vorrņ,

nel dolore non l'avrņ.

- Andrņ io, mamma, e te la condurrņ.

Di Costantin sulla parola

maritossi Jurentina.

e se ne andņ nella lontan Venezia.

 

* * *

Giunse un anno assai funesto

che mieté a quella signora

in una battaglia sola i nove figli,

e la decima, l'unica figlia,

in Venezia si trovava.

Oscura ne restņ la casa,

solitaria e desolata.

Dieci anni il lutto vi regnņ:

per i dieci figli suoi. 

Poi, trascorsi i dieci anni,

venne il Sabato dei Morti.

Usci allor la madre e si recņ in chiesa:

nella destra un cero aveva,

con l'altra man strappavasi i capelli

bianchi, disciolti.

Sopra ciascuna tomba un cero,

un cero ed un lamento;

ma sulla tomba di Costantino,

due ceri e due lamenti (pianti):

dimessa, in ginocchio

il capo ella battea su quella tomba;

tre volte levossi un alto gemito,

un gemito di sangue,

e ne tremņ la chiesa

mentt'ella il figlio suo chiamava:

- Costantin, figliolo mio,

ti sveglia, o figlio, tua madre io sono !

La parola che mi hai data, dov'é mai ?

di- condurmi tu mia figlia,

la mia figlia Jurentina ?

La tua parola č sotto terra! . . .

 

* * *

Quando si fece sera e chiusa fu la chiesa

ecco, ai quattro lati si fendé la tomba,

ed ecco, al chiaror delle candele,

sorger dalla tomba Costantino,

La Croce che proteggea la tomba

ne divenne un cavallo brioso

di nera gualdrappa adornato;

la pietra che copria l'avello

si cambiņ in argentea sella;

e in aureo freno si trasformarono

gli anelli della tomba.

Ei montņ a cavallo,

e nelle tenebre, qual vento,

il mantello sulle spalle svolazzante,

la spada al cinto,

volņ via dall'avello

ed a Venezia giunse.

Era gią giorno

quand'ei a casa giunse della sorella.

Nella piazza trovņ, dinanzi al palazzo,

i figli della sorella,

che inseguivan le rondini.

- Dov'é mai la tua signora madre? -

Nella ridda, per la cittą.

Ed ei raggiunse la prima ridda:

- Salve a voi, o della prima ridda!

- Benvenuto ne sia, figlio di nobil casta!

Qual tra noi pił t'affascina?

- Belle voi tutte siete

e di nobil signore voi tutte degne,

ma per me fascino pił non avete!

Vista voi forse avete Jurentina,

Jurentina mia sorella?

- Vista noi non l'abbiamo,

ma sģ l'abbiamo udita;

vedi pił in lą nella seconda ridda.

Alla seconda ridda giunto,

avvicinossi e chiese:

- Salve a te, bianca fanciulla!

- Benvenuto ne sia, figlio di nobil casta!  

- Forse tra voi č Jurentina,

Jurentina mia sorella?

- Va' innanzi ancora e ve la troverai

col giubetto indorato

e la "zoga" di velluto.

Alla terza ridda giunse:

- Costantin, fratello mio! 

- Jurentina, ti sciogli e andiamo

chč meco a casa devi tornar.

- Ma tu dimmi, fratel mio,

chč se a un lutto mi conduci,

le gramaglie io vestirņ;

e se invece al gaudio andiamo,

pił belle vesti m'adornerņ.

- Come t'ha colta l'ora t'incammina.

E sulla groppa posela del suo destriero.

 

* * *

Lungo strada ond'essi andavano

cinguettavan gli uccellini:

"il vivo con il morto!"

 - Ma tu senti, fratel mio,

cosa canta n gli uccellini?

Le rispose Costantino:

- L'uccellino č stolido

e non sa quel ch'ei si dica.

Ma riprese la sorella:

- Costantin, fratello mio,

funesto indizio io vedo:

le tue ben larghe spalle

ahimč! sono ammuffite!

- Jurentina, mia sorella,

dei fucili il denso fumo

ammuffite ha le mie spalle.

- Costantin, fratello mio,

un altro funesto indizio io vedo:

la ricciuta chioma tua

tutta in polvere ridotta.

- Jurentina, mia sorella,

ti si adombrano gli occhi

chč il destrier solleva polvere

ed il sole te li abbaglia. -

Giunti poi al natģo loco:

- Costantin, fratello mio,

perchč mai i miei fratelli

ed i figli del signor zio

non li vedo incontro a noi?

- Jurentina, mia sorella,

forse al disco or essi giocano,

né attendeanci questa sera.

- Ma un altro funesto segno io vedo:

le finestre di casa nostra

serrate sono,

serrate ed annerite!

- La tramontana qui dai monti infuria. -

Passaron poi presso la chiesa:

- Lasciami entrare a pregare un poco. -

Ella soletta, sł per le scale,

giunse diffilato. dalla mamma.

- Aprimi la porta, o madre mia!

- Chi č costģ presso la porta?

- Jurentina io son .. signora mamma!

- Lungi va', crudele Morte,

chč nove figli m'hai rapito

e di mia figlia la voce or simulando

vieni a rapir me pure.

. - Apri, oh apri, mamma mia:

sola son io, son Jurentina!

- Chi t'ha condotta qui, figliola mia?

- Costantin mi ha qui condotta,

Costantino il fratel mio.

- Costantino?..  e dov'č ora?

- In chiesa entrato ei prega. -

La porta spalancņ;

- Morto č il mio Costantino !!!!

Abbracciossi la mamma alla figlia,

abbracciossi la figlia alla mamma,

Morģ la madre e morģ la figlia.

 

 

Nga Drami "Emira" Andon Santori'

(Dal Dramma "Emirall di Antonio Santori)

 

AKTI I DYTĖ - Sqena e parė

 

Kallonjeri ruan dhent e kėndon:

U mose prapa t'erdha - Pėr male, laka e kronje, Ndėr lume e nder pėrronje - E kudo vajte ti. Kur ndėjte skemandilin -Tė bardhė e u t'e kondrepsa Me botė - e u t'e nxėrrepsa - E mė kanoseshė ti. Kur mbjedhur fjetė te mėni - Thesin e rrukulise Tek ara e m'e xarrise - Se tė bėje dėme ti. U tė pé; e pra te kroi - Kur aq ėmbėl kėndonje E mallin dreq zbulonje - Ēė mė ke ndė zėmėr ti...

Kallina (me delet): Kush ėshtė ky sinjalląt ēė

kendon si dhisapģt?

Kallonjeri:  Kalline! O sa ditė ka ēė sė tė pé,  Kalline!

Kallina: Ēė ke tė bėsh me mua ti, ēė kėrkon tė mė shohėsh?

Kallonjeri: Se kam u mall.

Kallina: Po jo u pėr tij.

Kallonjeri: Dhe poka mban atė mėri ēė mė buthtove, kur tė parėn herė tė hapa zėmrėn?

Kallina: Mos u jam ndo njė ré e shtitur nga era, ēė ndėrroqet nga njėmend?

Nge t'ė thashė se mė mos m'i ben ti kėto xhuta, se u s'jam gruaja ēė do ti. E nga njė pra, ēė mund'ajo tė pritė nga ti ?

Kallonjeri: Gjithė mirat e mallit e tė pėlqiemet ēė pret nje kopilė cila mbashket me njė trim.

Kallina: Mbaji pėr tji! u s'i dua kėto te mira. U jam e lerė ndė njė shtėpi me kė se mund'kushqihet gjaku yt edhe nd'isha u e llavur njera te' t'doja. Po te ky pėnxier mos qėndro fare.

Kallonjeri: Alimonņ ! ashtł e ngurėt je?

Kallina: E ngurėt mė se shkėmbi "Sanda-Veneres".

Kallonjeri: Mos fjit ashtu se m'pjasėn zėmrėn.

Kallina: Ngė tė fjas fare, se marr e vete pėr fanė tim.

Kallonjeri: Jo, Kallinė, rri njetėr thėrrimėz.

Kallina: Ēė tė kėnduome ! Ēė pėrtendon nga u, tashi ēė tė thashė dreq se ngė tė dua ? Nėng tė dua e s'mund tė t'dua.

Kallonjeri: Tė thom se qeva nd'markąt Samark, shita ca rikaz e tė bjeta kėtė skemandil mundashi, njė anak, njė parėz vėthė e njė unazė.

Kallina: Mua kėto shėrbisė? Qellja ndo njij dosje: vėthė, unaza e skemandile! Sa tė mė shihin kėto mėma e tata, kesh tė vjohsha pėr sė gjalli ndė varr.

Kallonjeri: Njota si janė tė bukuriz: pa shih ndė dita t'i zgjidhja.

Kallina: Tash ēė nėng i dua, ēė kam i shoh tė bėnjė?

Kallonjeri: Sa tė shohė ndo se kanė o s'kanė hje ngrah njėj kopilje...

Kallina: U s'dua tė vė ngrah meje stoli ēė s'jane timet.

Kallonjeri: U per tij i bjejta, mirri.

Kallina: Se tė shihje si dukeshin mbal meje? Dua tė t'jap kėtė gust. Em kėtu vėthtė pėrpara; prana anakėn e skemandilin; pėstaj unazėn. Shohemi nde mund' tė tė nxier ngrah u sot.

Kallonjeri: Majde ! Si t'kane hjė! mė fllagėn ndė gji si ndė pasiqir. Me shėndet! Mbaji, mbaji. Njota ikėtin rikazit. (i shtėlohet pas).

Kallina: U nėng i dua ! Zaji, zaji. Popo! iku. Zjarmi im! ndė mė paft njeri me kėto stoli ngrah. E zeza u ku vete e ngulem? Sh'ajo Emira. T'i shehinj njize...

Emira: Kalline, ti ishnje ? Ngė tė njoha persellargu. Di u si m'u fjandakse me njė skemandil tė kuq e tė kalthėr xhimłzashi.

Kallina: Tė bėtėtin sytė, motėrm. Kush m'e jip mua njė skemandil tė kujllortur, tata o m'čma? Popo! si u ngarkove rėnde mė shkarpa! S'ke fare kujdes tė gjellės sate. 

Emira: E s'di se kam tė prirem pameta? qėndruom pa zjarm ndė shtėpi, me kėto net kshtu tė giata e tėtimėme si bėnjėn. Gadhurja e di se na spovisi; val kemi pak; tata pati sinahijin e kollėn me gjashtė ethe e pat' tė shėrbinja u pėr dy herė, si s'kishnja adhčt. Vėr edhe se mbrėmanet tuortim njera kur kėnduon gjelat e tė hollat patėtin tė na bėjin drite. 

Kallina: Ec motėrm, ec, mos do tė prėhesh. Rri ashtu me atė barrė ngrah.

Emira: Vete se kam keq pres. Rri mirė! 

 

 

ATTO SECONDO - Scena prima

 

Kallonjeri, guardiano di porci, canta:

Io sempre d'appresso ti venni - per monti spiaggie e fonti - e a rivi e in convalli - e ovunque andasti tu: - quando sciorinasti il fazzoletto - bianco, ed io te lo sporcai - con terra, e adirar ti feci - e tu mi minacciavi: - quando, colta la fronda dal gelso - il sacco pieno rotolasti - nel seminato, e l' trascinasti - solo sģ dolce cantavi - e l'amore chiaro svelavi - che m'hai nel cuore tu...

Kallina (con le pecore): Chi č questo disgraziato che canta cosģ sguaiato?

Kallonjeri: Kallina! Oh! Da quanti giorni non ti vedo! Kallina!

Kallina: Che vorrai tu da me, che mi cerchi con tanto interesse!

Kallonjeri: Perchč di te mi sono innamorato.

 Kallina: Ma non io di te.

Kallonjeri: Dunque ancora continui a disdegnarmi, come quando per prima volta t'apersi il cuore?

Kallina: Forse ch'io sono una nube spinta dal vento che muta ad ogni istante?

Non ti ho detto di farla finita con queste moine, perché non sono io la donna che fa per te? E poi, qualunque altra donna, che cosa potrebbe mai aspettarsi da te?

Kallonjeri: Tutti i beni e le dolcezze dell'amore che sogna una donzella quando si unisce ad un giovane.

Kallina: Tientili pure per te, che io non li voglio questi beni. Io son nata di tale casa, che non potrą mai far connubio col tuo sangue, anche se io fossi cosģ pazza da volerlo. Perciņ non ci pensare pił.

Kallonjeri: Ahimč! Cosģ duro hai il cuore?

Kallina: Piu duro della "Rupe di S. Venere".

Kallonjeri: Non parlarmi cosģ che mi spezzi il cuore.

Kallina: Non ti parlerņ pił affatto, che gią me ne vado per i fatti miei.

Kallonjeri: No, Kallina, fermati ancora un istante.

Kallina: Oh! che nenia! Cosa pretendi ancora da me, quando gią ti ho detto chiaramente che non ti voglio? Nč ti voglio nč posso volerti.

Kallonjeri: Volevo dirti che sono stato alla fiera di S. Marco; lą ho venduto alcune porcelluzze e ho comprato per te questo fazzoletto di seta e una collanina e un paio d'orecchini e quest'anello.

Kallina: A me con queste cose? Portale a qualche scrofa.. Orecchini, anelli e fazzoletti! Quando me li vedessero mamma e babbo dovrei rinchiudermi viva in un sepolcro.

Kallonjeri: Guarda come son belli! Vedi un pņ se io so scegliere!

Kallina: Ma se non li voglio, perché dovrei vederli ?

Kallonjeri: Vorrei solo vedere che bella mostra fanno su una bella ragazza.

Kallina: Non ho nessuna voglia di mettermi addosso ornamenti che non sono miei.

Kallonjeri: Ma per te li ho comperati; prendili.

Kallina: Volevi solo vedere come mi stanno bene? To' ! voglio darti questo gusto. Dammi qui gli orecchini prima, poi la collana, e il fazzoletto, e poi l'anello. Vediamo se cosģ potrņ toglierti di dosso quest'oggi.

Kallonjeri: Perbacco! Come ti stanno bene! Mi splendi in seno come in uno specchio.

Complimenti! Tienili, tienili. Ecco, mi scapparono i porcellini (corre dietro i porcellini).

Kallina: No, che non li voglio io. To' prendili. Ahi! č fuggito. Che disdetta! Se mi dovesse veder qualcuno con questi monili addosso" Povera me, e dove rifugiarmi? Ma ecco proprio Emira. Presto, a nasconderli.

Emira: Kallina, eri tu? Da lontano non ti avevo riconosciuta. Mi č parso di averti vista con un fazzoletto a strisce rosse e azzurre.

Kallina: Gli occhi ti hanno ingannata, sorella mia. Chi me lo poteva dare, a me, un fazzoletto a colori, babbo o mamma? Povera me!.. Ma come ti sei caricata di fascine! Non hai proprio nessuna cura della tua vita!

Emira: E se pensi che devo tornare ancora al bosco! Siamo rimasti senza fuoco a casa mia, e con queste notti lunghe e il freddo che fa; L'asino, lo sai, ci č morto; olio ne abbiamo poco; babbo ha avuto la polmonite e la tosse con sette febbri, e a me č toccato lavorare Il doppio di quanto non fossi abituata. Aggiungi che alla sera siamo rimaste a filare sino al canto dei galli, e solo le frasche ci hanno fatto lume.

Kallina: Va', sorella mia, va'; se pure non vuoi ririposarti. Ma ti deve pesar tanto quella soma sulle spalle...

Emira: Me ne vado, chč ho molta fretta. Stammi bene.

 

 

Trimi Vasha e Ajri

 

Trimi: Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha: Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja: Mbe tutjč ndė verėt,

           kur te lulezonje molla,

           si kish vasha kryethit.                       5

Trimi: Mė dėrgo ti ajrin !

Vasha: Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja: Mbe tutjč ndė verėt,

           kur tė lulėzonjeė ulliri,

           tė mė siellė ullinjt e zėzė,                 10

           si kish vasha syzit.

Trimi: Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha: Qetu, trim se t'e dergonj.

Vallja: Mbe tutjč ndė verėt,

           kur tė lulėzonjė thana,                    15

           si kish vasha hundėzėn.

Trimi: Mė, dėrgo ti ajrģn !

Vasha: Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja: Mbė tutjč ndė verėt,

           kur tė lulėzonjė shega,                  20

           tė mė sjellė shegėn e kuqe,

           si kish vasha faqjen.

Trimi: Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha: Qetu, trim se t'e dėrgonj.

Vallja: Mbė tutjė ndė verėt,                   25

            kur tė lulėzonjė girshia,

            tė mė sjellė gjėrshinė e kuqe,

            si kish vasha buzėzėn.

Trimi: Mė dėrgo ti ajrin!

Vasha: Qetu, trim, se t'e dergonj.          30

Vallja: Mbė tutjč ndė verėt,

            kur tė lulėzonj ftoi,

            tė mė sjellė ftuan e bardhė,

            si kinsh vasha gjirthin.

Il giovane la fanciulla e la brezza

 

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla: T'acqueta, o giovin, chč a te la manderņ.

Coro: Pił in lą in primavera,

       quando fiorisca il melo,

       sģ come il capo (di fiori adorno) la fanciulla avea.

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla: T'acqueta, o giovin, chč a te la manderņ.

Coro: Pił in lą, in primavera,

          quando l'ulivo in fiore

          si carchi di bacche nere,

          sģ come gli occhi la fanciulla avea.

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla:T 'acqueta, o giovin, che a te la manderņ.

Coro: . Pił in lą, in primavera,

          quando il corniolo in fiore (porti il suo 

           gentil frutto), come il nasino la fanciulla avea.

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla: T'acqueta, o giovin, chč a te la manderņ.

Coro: Pił in lą, in primavera,

          quando il melagran fiorito

          mi porti il suo rosso frutto,

          come la guancia la fanciulla avea.

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla: T'acqueta, o giovin, chč a te la manderņ.

Coro: Pił in lą, in primavera,

          quando il ciliegio in fiore

          mi porti le ciliegie rosse,

          come la bocca la fanciulla avea.

Giovane: La brezza tu m'invia.

Fanciulla: T'acqueta, o giovin, chč a te la manderņ.

Coro: Pił in lą, in primavera,

          quando il cotogno in fiore

          m'offra il suo frutto candido,

          sģ come il seno la fanciulla avea.

 

 

Kėnga Brumit

 

Se ti vashėza hadhjare,

me mbė shpi t'ėm' e t'ėt atė,

sa hadhjare edhe dėlirė,

ēė mė ngjeshėn ata brumė,

ngjeshe fort e ngure shumė.                  5

Bėn kuleēė e m'i deėrgo

gjithė gjirivet mbė shpi, 

gjithė gjitonėvet mbė derė,

tė t'mburonjė buka ndėr duar,

tė tė shtohen ditėt e mira,                   10

te t'zbardhet ajo jetė

pjot me dritė e me haré

si e bardhėz je ti vetė.

****

E kur njė bir tė ketė ajo zonjė,

mė ju rritėt e ju bėftė trim,                  15

me defugen nder duar

e me shpatėzėn ndė brest.

Pra nd'amahjit m'e dėrgoftė

sa t'i priret mbė shpi

me hie pjot e me argjėnd,                  20

e turkeshėzėn m'i sjelltė

per hare tė gjitonisė.

****

Se njė vashėz kur tė ketė,

mė ju rritėt e m'i pastė hjé,

m'e martoftė dymbėdhjetė vieē         25

e pastė miell e mė bėftė kuleēė,

e paste tri noré kriate

t'i kujdesjėn nga menatė

bijt'e shpin' e asajė zonjė

e t'i bejėn hjé pėr monė.                   30

 Canto del lievito

 

O giovinetta di grazie adorna,

con in casa e padre e madre

quanto di grazie ornata, ingenua tanto;

tu che ora quel lievito m'impasti,

spianalo forte e induralo assai.

Fa' le ciambelle e mandale

ad ogni casa dei parenti,

ad ogni porta dei vicini,

che il pane in man ti si moltiplichi,

ché ti s'accresca il numero dei dģ felici,

ché la tua vita sia radiosa

di luce piena e d'allegria

cosģ come radiosa sei tu stessa.

****

E quando un figlio quella signora m'abbia, possa egli crescere e farsi un baldo giovane

che sappia maneggiar il suo fucile

e la spada al cinto porti.

Poi baldanzoso parta per la guerra,

e salvo a casa ritornato,

d'argento carco e d'onore grande,

con sč riporti ancor la giovanetta turca

per allietar del vicinato il coro.

****

Una figliola poi quella signora m'abbia

e bella cresca e le sia d'onore,

e a dodici anni la possa maritare,

e m'abbia sempre farina e farsi torte

e ancora tre donzelle assai prudenti,

ch'ogni mattin si prendan cura

dei figli e della casa ,della signora

e le siano sempre a decoro.

 

 

Kėnga Dasmore - Carme nuziale

 

Gratė 1: Ulu nusc, e lumja nuse,

             t'erth hera ē'vete nuse,

             vete nuse kėjo zonjė

             ndė krahėt tė njėj zoti

             tė zbardhet njė sbpi e re.         5

Gratė 2: Ju po sboqe e gjitone

             krehėni mire kėshetėthin,

             piksn'ja butė e bėni palė,

             mos i kėputni ndonjė fill,

             t'e varesėnjė kėjo herė.         10

Gratė 1: Mbi thron e zotėrisė

             ni bukur kėshetėluar

             me kezė tė llambarme,

             me forėn e jarit tėnd,            15

             o hjea e vashavet

             ngreu se mėnove shumė.

Gratė 2: As mėnoi ndo njeri

             se mėnoi zonja e jėma

             te m'i bjenej cohėn              20

             mos t'i fjuturonj shpejt.

             Ni ēe doni t'e anangasni,

             tek e prasmja kėjo hėre ?

             Monu shkepti dielli.

Vashat (pėr nusen):

             Vet m'i ambjedhur ku do vend.

              bėra lulet tufa tufa,

              gjithė gjirivet ja dėrgova.

Gratė 1: O nuse vashė dėlirė,

              kuj je molla e pa-mbjelė,

              e lulėzuar mbi dhe,             30

              shtunur rrenjėt pa botė ?

Vashat: e se jam un'ajo mollė

             ēe s'potisi mosnjerģ,

             vetėm qielli mė lulėzoi,

             vetė dielli mė zbukuroi.        35

Burrat (jashtė me dhėndrrin):

             Ndallandishė xerk-bardhė,

             hape shpejt e m'u buthtņ,

             se t'erth jari ndė derė.

Gratė brėnda: Qeti, shokė, se ėshtė e zėnė,

             kemi shqėndėzit ndė finjė,   40

             kemi bukėzit te furri,

             sa t'i nxiermi e prana vjen.

Burrat jashtė: Po ti zot e dhėndėrrith

             mos mė ec ni tremburith,

             se ngė vete tė luftoshė,        45

             po mė vete tė rrėmbeshė

             atė krye-mollėzen,

             atė mes-purtekėzėn.

Gratė mbrėnda: Porsi hera t'erth e nise,

             pash ti hje, motra ime,        50

             por si dielli kur del,

             por si vera e qelqevet,

             porsi peta ndėr mbėsallėt;

             njota jashti tė mbullihet,

            jashti e gjithė jeta e huaj;     55

            Si pėllumbe e qiellvet,

            me mallirt e shokut tėnd,

            ti e lumja edhe nėn shi...

Kur hiri dhėndri ndė shpit

Gratė: Mirri ti poka, motra ime,

           mirr falģm ti nga shoqet,        60

           nga shoqet e gjitonet:

           mirr uraten e s'at'ėmė,

           te s' at' ėm' e tė t'yt ėti.

Vashat (pėr nusen): Ēė tė bėra u, mėma ime,

          e mė nxire ti gjirit tėnd,         65

          gjirit tend e vatr"čs sate ?

Gra e burra (pėr prindėt): Paē uratėn ti, o bilė,

          si tė t'Inzoti edhe tonėn:

          le zakonezit ēė ke

          e mė mirr ata ēė gjėn            70

          tek shpia ku vete nuse

          Ēė do bėfshė tė pastė hje;

          ėmrat tanė ndėr tu bij

          tė pėrthėnė na bėfshin nderė.

Tue vatur mbė Qishe

Burrat: Kėtje lart, kėtje pėr mali    75

          atje ish njė shesh i math

          tek kullotėnjin thėllėzat;

          m'u lėshua kėtje njė petrit,

          mė tė hjeshmen e zgjodhi,

          m'e ngrėjti pėr qielli.             80

Grate: Se petrit e stra-petrit,

          mė lėsho thėlėzėzėn !

          Njota, keq, si e rrėmbeve,

          lotėshit bunarėn gjinė !

Burrat :As e lėshon as e largon     85

          se m'e do pėr vetėhenė.

Kur dalėn nga Qisha

Grate: Hapu mal e bėnu udhė,

          tė mė shkonjė kėjo thellezė;

          ky petrit me krah'argjėndi

         bėn tė bjerė e s'ka ku tė bjerė. 90

Burrat: Bie ndė derėt e s'vjėhrrės.

Gjithe bashke: Se t izonjė e shegė e pjekur

         dil mb'udhė tue hajdhepsur,

         e m'i ec pėrparani.

         Shtroji mėndafsh pėr nėnė kėmbė, 95

         brez t'artė shtyri ndėr xerke

         e m'i lidh e m'i shtėrngo.

 

 

 

 

 

 

 

Coro di donne 1: Siedi, sposa avventurata,

    di tue nozze č giunta l'ora;

    dallo sposo accompagnata

    questa nobile signora

    muove a nozze, e la novella

    sua magon di se s'abbella

Coro di donne 2: O compagne, e voi vicine

    le sue chiome pettinate,

    mellemente le intessete

    ed apalla le intrecciate

    nelle bianche fettuccine;

    alcun filo non svellete,

    perchč l'ora infaustirete.

Coro di donne 1: Via sorgi dal trono tuo aulico,

    o ben pettinata signora,

    ti brilla la keza sul crine,

    orgoglio hai del baldo guerriero;

    o vanto e decoro delle verigini,

    amor di parenti e vicine,

    via sorgi, che tardi tu ancora ?

Coro di donne 2: Nessuno, nessuno ha tardato:

    la mamma soltanto ha indugiato

    nel comprarle la zoga, perchč

    non s'involi sģ presto. da sč;

    come voi or cercate affrettarla

    in questi ultimi istanti, non so !

    E' un momento che il sole spuntņ.

Coro di donzelle (per parte della sposa):

    Qua e lą bei mazzetti di fiori

     io raccolsi ed a tutti i parenti.

Coro di donne 1: Sposa, fanciulla ingenua,

    di chi tu sei il melo che non fu mai piantato

    entro terrena aiuola, 

    e le radici estendi senza posarle al suol?

Coro di donzelle: Son io, son io quel melo,

    che alcun non ha innaffiato,

    ma per virtł del cielo fiorģ mia grazia sola,

    bella mi ha fatto il sol.

Coro di uomini (dall'esterno, per parte dello sposo):

    O rondinella dal bianco petto,

    apri la porta e mi ti mostra,

    chč sulla soglia č il tuo diletto.

Coro di donne (dall'interno):

    Tacete, amici, ella č impedita:

    abbiamo i panni entro il bucato.

    č ancor nel forno il pan serrato,

    non appena abbia finito, tosto, amici, ella verrą.

Coro di uomini (dall'esterno):

    Ma tu, signore e sposo giovine,

    perché t'avanzi cotanto timido?

    Tu non muovi oggi a combattere,

    muovi a rapir la bella vergine,

    che come mela ha la guancia rosea,

    che ha la vita snella e flessibile.

Coro di donne (dall'interno):

    Poiché l'ora č ormai suonata,

    va', sorella avventurata;

    sii a tutti di decoro, come il sole rutilante,

    come il vino scintillante nel bicchiere cristallino,

      come il pan d'apparecchiata mensa sta sul bianco lino;

     per te l'estraneo mondo č ormai serrato,

     e nel desģo del tuo compagno amato,

     come la colomba al vol tu spazierai,

     sotto il nembo felice ognor sarai.

(Mentre lo sposo entra in casa della sposa)

Coro di donne: Prendi, sorella mia, prendi commiato

    dalle compagne tue, dal vicinato;

    te benedica la dolente madre,

    te benedica il premuroso padre.

Coro di donzelle (per parte della sposa):

   Che ti ho fatto, o madre mia,

   e dal tuo seno e dal tuo focolar mi scacci via?

Coro di donne e di uomini (per parte dei genitori):

   Come ti benedice il nostro cuore,

   ti benedica, o figlia, anche il Signore;

   lascia i costumi che hai

   e prendi quelli che ritroverai

   nel nuovo tetto che t'accoglie sposa;

   t'esalti l'opra tua in ogni cosa,

   e i nostri nomi nei figlioli tuoi

   perpetuati, sian d'onore a noi.

(Mentre il corteo s'avvia in chiesa)

Coro di uomini: Una bella e spaziosa

   pianura sovra i monti distendeasi,

   e in quella le pernici pascolavano;

   piombņ dall'alto un'aquila,

   ghermģ la pił graziosa

   e via volņ pei cieli.

Coro di donne: O aquila, fra l'aquile sovrane,

   la mia pernice rendimi !

   Eccola, trepida intimorita,

   inonda il sen di lacrime !

Coro di uomini: Non l'abbandona l'aquila,

   chč per sč la desidera.

(Mentre il corteo esce dalla chiesa)

Coro di donne: Apriti, monte, e ti tramuta in via

   perché passar vi possano questa pernice mia,

   questa pernice e l'aquila che ha l'ali d'argento;

   han di posarsi intento e van cercando il suolo

   ove raccoglier possano il lor volo.

Coro di uomini: Cadran presso la porta della suocera

Tutti insieme:

   O tu,signora suocera, matura melagrana,

   scendi in istrada e appressati

   al loro incontro; serici

   tappeti stendi sotto i piedi loro

   e una cintura d'oro

   gitta al lor collo e avvincili.

 

Qiparisi e Dhrieja

 

Bėri kėshillė Zonja Lėnė

po vetėm me trezė bujarė,

nėnė mollė e nėnė dardhė,

nėnė kumbullzėn e bardhė,

tė martojin dhrinė e bardhė,

te m'i jipin qiparisin:

"Qiparis i hjeshmi,

ēė tė jep tina jot'ėmė?"

"Ēė palė mua mė taksi tata?

Malin mė taksi me kafsha,

mė taksi fushazit me ara,

perivol edhe me lule,

pjot me zoq e me kangjele,

katėr kuej e t'armatosur,

katėr shatra kaluar".

"Thuaj ti dhri e dhriza e bardhė,

ēė stoli tė taksi yt atė?"

"Ēė stoli mė vjoi mėma ?

Nėndė cohė e nėndė linjė,

nėndė brezėz tė rėgjėndė,

nėndė keza tė vėlushta

tė tėrjorme me ar,

nėndė sqepez tė hollė

edhe sqepin me kurorė,

mė jep pesė nore kriate  

edhe mua t'bukurėn" !

 

 

Il cipresso e la vite

 

Radunņ a consiglio donna Elena

i tre nobili bugliari

sotto il melo, sotto il pero,

sotto l'ombra del bianco pruno:

maritar con il cipresso

si volea la vite bianca.

- O cipresso, ella le chiese,

o cipresso d'ombre estese,

che daratti mai tu madre?

- Ha la mamma a me promesso

pien d'armenti una montagna,

e di messi una campagna,

un giardino pien di fiori,

che d'augelli ha lieti cori,

due parglie di giannetti

con complete bardature

e due coppie di valletti.

- O mia vite, bianca vite,

qual corredo, di' tu pure,

t'ha promesso il signor padre?

- A me il babbo m'ha promesso

nove zoghe tutte nuove,

e camicie pure nove,

nove keze vellutate

tutte in oro ricamate,

nove ancor sottili veli,

nove ancelle assai fedeli

ed ancor la mia beltate.

 

E ikura

 

Kur leve, leve ti vashė,

u ndė derėt tėnde jeshe,

lutja e parkalesja,

parkalesja tine Zonė

tė mė lehėshe nje sy-zezė.

Sy-zeze vasha m'u le.

Kur m'urrit e u bė kopile

edhe zėmra i lulėzonej,

proksenitė u m'i dėrgova.

Vashė doj, po nėng desh

ajo bushtra e jėma .

"Vashė, ti mos u helmo,

se tė butinj u t'ėt ėmė".

Bjejta u nj'pare kaliqe

e sė jemės ja dėrgova,

proksenitin dhe m'i prora.

Jėma desh, po ehjerė s'desh

i jati mose i vrėrėt.

"Vashė, ti mos u helmo,

se tė butjni u t'ėt atė".

Njė tereqė tė vėlushtė

bjejta e ja dėrgova t'etė.

proksenitin dhe m'i prora.

Jati desh po ahiera s'desh

i vellau qen mixorė

ēė duall e foli pjot me forė.

"Vashė, ti mos u helmo,

se t'e ndryshinj u t'ėt vėlla".

Bjejta nj'brez tė rėgjendė

me mahjere damaskine

tė vėllaut e ja dergova,

proksenitin dhe m'i prora.

Mbrezulloi ai mahjerėn,

po tė motrėn s'kutėndoi.

Njė tė dielėz menatė

m'u nisa e vajta vetė.

M'e ēova ndė kamarėt

ēė kėshenė mė pjeksnej:

kėsheti ish njė villostar

ēė pjekshej me file ar

t'ardhur nga Anapuli

e mbi shir e vėj palė.

Pika lotė i bij ndė gji,

po ato s'ishėn pika lotė,

se ish zjarrmi i t'dashurit.

E tėfala e i ndėjta dorėn,

vithe kalit pra m'e vura

e u shtura sheshevet.

Duall pėrpara i vėllau

me tė katėr lalėrat

e me' shtatė kushėrinj:

"Mba, ti trim, kalin dalė,

sa t'i taksėnj palėn".

"Palėn ēė desha u mora.

vashėn tė bardhė si bora:

sytė e sajė dy-mij dukatė,

vetullat njetėr dy-mij,

buza njėter aqėvetė,

vetėhea pra gjithė njė jetė"

Ndėnj e priti ai mb'amahj

tek urėza e lumit,

ku ju rrodhtin mbė t'lavosur.

Atje ranė tre o katėr,

pra kolarti ai ka kali

me pas t'bukurėn.

Atje i pushtruan gurė.

Kur lulėzoi vera,

trimi u bi nje qiparis,

vasha u bi njė dhrize e bardhė

e u kumbis te qiparisi

me tė gjatin villostar.

Suall rushė dhria e bardhė;

shkojin tė sėmurmit

hajin e shėronshin;

skojin tė lavosurit,

bėjin fjeta qiparisi,

ja vėjin lavomėvet

e ato dėlirėshin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 La fuga

 

"Bella fanciulla, quando sei nata,

alla tua porta stavo a sedere,

Iddio pregando che ti largisse

pupille nere".

Con gli occhi neri essa mi nacque

e quando crebbe negli anni e in core

la giovinezza ridea, mandai

l'ambasciatore.

Accondiscese colei. - Si oppose

l'acerba madre - "Ma tu di ciņ

pensier non darti, fanciulla mia,

la piegherņ".

Acquisto feci di bei calzari

ed alla madre li regalai,

cosģ fidenti gli ambasciatori

le rimandai.

Mutņ la madre. Il padre allora,

burbero, irato, negņ il permesso.

- Ma non ti dolga; spero, o fanciulla,

piegare anch'esso. -

Un ammanto tutto velluto

comprar io volli pel genitore

e a lui ritorno feci di nuovo

l'ambasciatore.

Mutņ anche il padre. L'empio fratello

venne, si oppose, parlņ severo,

- A te l'ambascia non punga il core,

placar lo spero. -

D'argento un ricco cinto comprai

con damaschina lama fulgente

e a lui tornaron gli ambasciatori

novellamente.

La spada ei cinse, ma pur non volle...

accondiscendere ai preghi miei;

una domenica mattina io stesso

andai da lei.

Nelle sue stanze ella era intenta

ravviar le chiome con bel lavoro;

eran le trecce tralci intessuti

di fili d'oro.

Sovra la nuca stringeale a palla,

stille di pianto pioveano in petto,

pianto non era, era il desģo

del suo diletto.

Salve, le dissi, la man le porsi,

la tolsi in groppa al mio destriero

e via pei campi sģ come il vento

volņ il corsiero.

Quattro avea zii, sette cugini,

fummo inseguiti da tutti quanti,

all'improvviso l'empio fratello

ci uscģ da vanti.

- Allenta il corso del tuo cavallo,

perché la dote io qui prometta

a questa figlia di galantuomo,

fermati e aspetta. -

- L'ebbi la dote che volli: questa

vergine banca qual neve, mille

ducati e mille valgon soltanto

le sue pupille.

Altri duemila valgon le ciglia

ed altre tanto la bocca ardita;

non ha poi prezzo, ma un mondo intero

val la sua vita. -

E li, sul ponte della fiumana

a la battaglia ratto s'accinse;

torno la turba degli aggressori

a lui si strinse!

Caddero al suolo tre o quattro e poi

piombņ il garzon gił dalla sella,

a lui d'accanto, trafitta anch'essa

cadde la bella!

E dagli irati anbo di pietre

furon coperti nel loco istesso,

ma in primavera da quel garzone

nacque un cipresso.

E la fanciulla gentile e candida

in vite bianca si tramutņ,

i lunghi tralci tese e al cipresso

s'avviticchiņ.

Maturņ l'uva la vite bianca

e se, scorrendo di lą i malati,

i bianchi grappoli assaporavano,

eran sanati.

Se poi le foglie di quel cipresso

cogliean, passando di lą, i feriti

e su le piaghe le distendean

eran guariti.

 

 

Kostandini i Vogėl - Costantino il giovane

 

Kostandini i vogėlith

tri ditė dhėndėrrith,

ato shkuar tri ditė,

me nusen tė re tė re,

i erth karta e zotit madh,

ai tė vej ndė ushterėt.

Kostandini ahiera

vate te kamara e t'et

tė jatit e s'ėmės

e m'i puthi dorėn

e m'i lipi uratėn.

Pra gjeti tė dashurėn

holqi e m'i d ha unazėn:

-"ėm timen, zonja ime,

mua mė thirri zoti i math

e kam vete nd'ushtėrėt,

tė luftonj pėr nėndė vjet;

nd'ato shkuar nėndė vjet,

nėndė vjet e nėndė ditė

e u mos t'u priersha,

vashė, tė mė martonesh!" -

Fare nėng foli vasha.

Nxuar e m'i d ha unazėn.

Mbet e ndėnji ajo ndė shpi,

njera ēė shkuan nėndė  vjet,

nėndė  vjet e nėndė  ditė.

Pra pjaku i vjehri

(se mose trima bujarė

dergojin e m'e dojin)

bija ime, i t ha, martohu !

As foli vasha e bardhė

e m'i bėnė krushqi hadhjare.

 

***

 

Tė pėllasi zotit math,

pėr menatje, Kostandinit

po m'i vate nj'ėndrrėz

keq shumė e trėmburėz,

ēė m'i trėmbu gjumin.

Zgjuat e kujtuarith,

holq'e dha njė sherėtim

sa m'e gjegj zot'i madh

i mbyllur spėrvjerėshit

ka noti'e natės.

Si u ngre menatet,

bėri e i ranė daulevet.

Mbjoth akolėzit mbė rreth:

-"Se ju akolėzit e mi,

tė vėrtetjėn mė thoni:

kush mė shėrtoi sonde ?" -

Gjithė e gjenė e s'u pėrgjenė,

u pėrgjegj po Kostandini:

-"shėrtova un' i mjeri" -

-"nga e helmėsia jote?"-

-"Helmėsia ime largė,

sot martohet ime zonjė!" -

-"Kostandin, i miri im,

zdrepu grazhdėvet e mi,

zgjidh ti kalin mė tė shpejtė,

tė shpejtė si qifti,

tė jesh ndė katund mbė heė".

 

***

 

Rrodhi vrap trimi e zgjidhi

kalin tė shpejtė si qifti

e i hipi e ira mbė shporė.

Pak u prė ditėn e natėn

njera ē'ngau te dheu tij

mbė t'u dijtur e diella.

Njo u pėrpoq me t'anė e lashtė:

-"Ku vete ti tatė loshi ?" -

-"Vete ku shkretia ime

mė qell tė gramisem,

se pata nje bir tė vetėm

m'e martova shumė tė ri,

me vashėn ēė deshi vetė. 

Tri ditė po ndenj dhėndėrr,

pra i erth karta e zotit math,

ēė e deshi tek amahi.

Biri im, i pjotė helm,

vashės i propri unazėn:

u kam vete nd'ushtėrėt,

tė luftonjė pėr nėndė vjet;

nd'ato shkuar nėndė vjet,

nėndė vjet e nėndė dite

e u mos u priersha,

mba ti unazėn e martohu,

se vetė jam u nėnė dhe.

Ani sot vasha martohet

e pushkat ēė shkrehjėn

thonė vdekjen e birit tim;

e unė vetegramisem."-

- "Priru prapė ti, tatė lashtė,

se yt bir vjen njėmend." -

- "Mė rruash, i bukuri djalė,

ēė mė dhe laim tė m,irė,

se im bir mė vjen nani! " -

Trimi shkoi e ira mbė shporė,

mos t'e ēoj tė vėnė kurorė.

Te hera e Meshės s'madhe,

m'arrł te katundi tij

dreq ndė derė tė Qishės,

kur arrėnej nusja

e dhėndrri e hora ndaj

e mė qandoi fjamurin:

- "Se ju krusq e ju bujarė

duamni edhe mua nun

te martesa e kėsaj zonjė." -

- "Mirė se vjen ti trim i huaj,

trim i huaj e i hjeshėm,

mirė se vjen te gėzimi jonė." -

U hap qisha e hijtin.

Atje erth pėstaj hera

trimi tė ndėrroj unazat;

por ndėrroi e i la te gjishti

vashės unazėzėn e tij.

Zonjės si m'i vanė sytė,

e njohur mė ju dhifis,

lotėt mė ju rrukullistin

sumbulla sumbulla faqes kuqe,

pikė pikė gjirit bardhė!

Kostandini ēė m'e pa:

- "Ni ju priftra e bujarė

mbani dalė ato kurorė.

Kostandine, kuror'e pare,

kėjo vashė lidhi pėr monė,

Kostandini u ndėr tė gjallė ! ! ! !" -

 

 

Il giovin Costantino

sposo fu per tre dģ.

Ma, trascorse tre sere

con la tenera sposa

ebbe ordin dal sovrano

di raggiungere le schiere.

Allor dei genitori Costantino,

nelle stanze sali,

baciņ ambo la mano

e d'esser benedetto chiese loro.

Indi cercņ la sposa,

trasse e le dič l'anello.

-Rendi anche tu, o signora,

l'anello a me; il Sovrano

ha gią fatto l'appello,

seguir dovrņ le schiere,

nove anni ho da combattere;

ma trascorsi nove anni,

nove anni e nove giorni

ch'io non sarņ tornato,

sgombra da cor gli affanni,

signora, rimaritati.

Restņ muta la giovane,

trasse egli dič l'anello;

nella casa di lui tacita e sola

stette finché passarono

nove anni e nove di

e poi di continuo

a lei la man di sposa

nobili giovi netti richiedean.

Il suo canuto suocero

disse: Figliola mia, ti rimarita.

La bianca donna udi

l'annunzio, silenziosa,

e con gran pompa fu promessa sposa.

* * *

Nel palazzo del sovrano,

entro il sonno mattutino,

fece un sogno Costantino,

fece un sogno spaventoso,

che dal sonno lo destņ;

e turbato, pensieroso,

Costantino sospirņ.

Quel sospiro udģ il Sovrano,

chiuso in serica cortina.

e destato la mattina,

fe' rullare i suoi tamburi

e le guardie e i cavalieri

a raccolta egli chiamņ.

-Su, m'udite, o miei securi,

siate meco veritieri,

chi stanotte ha sospirato ?

Tutti tacquero i guerrieri,

sol rispose Costantino:

-Io, l'afflitto, ho sospirato !

-O fedel mio Costantino,

da che nasce il tuo sospiro ?

-Signor mio, del mio martiro

lungi č molto la cagione;

oggi stringe l'amor mio

nuove nozze in mia magione.

-Costantin, figliolo mio,

nelle stalle mie discendi,

a tua posta scegli e prendi

il cavallo pił veloce,

sprona, dagli in sulla voce

ch'ei qual nibbio voli e va',

giungi a tempo in tua cittą.

* * *

Nelle stalle discese Costantino

e un veloce destrier, veloce come

il nibbio, sciolse dai presepi. In groppa

balzņ, spronollo e via pei campi, poco

il dģ e la notte riposando; all'alba

di domenica, giunse alla sua terra.

E s'incontrņ col vecchio genitore,

e il genitore non conobbe il figlio.

-O venerando veglio -questi chiese -

dimmi, dove tu muovi i tardi passi ?

-Io me ne vo dove la mia sventura

spingemi, in cerca d'un'alpestre rupe,

da cui precipitar possa il mio frale;

ebbi un figlio assai leggiadro, e molto

giovine ancora a fauste nozze io strinsi.

Solo tre dģ fu sposo, indi chiamato

dal Sovrano alla guerra, addolorato

il figliuol mio restituģ alla donna

il nuziale anello ed a lei disse:

"Donna, partir m'č forza e per nove anni

m'avrą la pugna. Scorsi quei nove anni,

nove anni e nove dģ senza ch'io torni,

dell'anello disposi e ti marita,

chč sotterra io sarņ". La nuora mia

nuove nozze oggi chiamano, e gli spari

ch'odi di festa, annunziano la morte

di mio figlio, e di morte in cerca io movo. -

E Costantino a lui: -O venerando

veglio, ritorna sui tuoi passi.,or ora

verrą tuo figlio. -Giovine e leggiadro,

salve, chč rechi a me tanta novella,

che Costantino mio sta per venire. -

Il giovine spronņ, chč non trovasse

gią maritata la sua donna, e, giunto

nella cittą, della gran messa all'ora

ei si fermņ alla porta della chiesa

mentre veniva il nuzial corteo

di grande moltitudine seguito,

ed ivi Costantin piantņ il vessillo.

 

-Parenti e cavalieri, a me sia dato,

per cortesia, venir da paraninfo

alle onoranze della sposa anch'io. -

E disser tutt: -O giovine straniero,

giovin leggiadro, assai da noi gradito.

giungi nel gaudio della nostra festa. -

Si spalancņ la porta della chiesa

ed entrarono. Allor che a Costantino

toccņ la volta di scambiar gli anelli

scartņ l'anello dello sposo e il suo

vecchio anello alla sposa ei mise in dito,

Mirņ colei l'anello e il riconobbe,

impallidģ: scendeano rotolando

per le guancie le lacrime e pioveano

a stille a stille su l'eburneo petto.

E Costantino vide e gridņ forte:

-Adagio, o sacerdote e cavalieri,

non intrecciate pił quelle corone;

altra corona un dģ legņ in eterno

il cor di Costantino e di costei,

nč morto č Costantino, vive e son io !

 

 

Rina e Radavani i Vdekur - Rina e il fratello Radhavano

 

Rina buar tė vellanė,

tė vellanė Radavanė.

Tri ditė me kerkoi,

tri ditė me diellin,

tri natė me hėnėzėn.

pėstaj m'e gjeti tė vrarė,

tė vrarė e krye-prerith,

te sheshi Anapulit.

I ndihtin tė varfėrit,

j'e vu mbė mushkė tė zezė

e m'u pruar dreq prapė.

udhės lodhur, te njė pėrrua

u prė, e, zdrepur, e mbuloi

me fjamur e vetėtij.

Shkoi ortej'e Arminoit:

- "ėm njė pikė ujė, Rinė " -

- "Ujėt s'kam ku tė t'e jap." -

- "Ėme ndė grusht tėnd, moj Rinė." -

- "Grushti im i pjotė unaza,

pikėn ujė nėng m'e mban;

atė pikėn ēė m'e mban

kam t'ja ruanj zotit tim.

Po ti qen, ti tradhėtur,

ti mos fol kėshtu me mua,

se ndė zgjofsha tim vėlla,

copa e thela bė t'ju benjė." -

- "Rinė, tė qofsha truarith,

sa t'kaptonjė u kėtė mal,

mos zgjo ti t'ėt vėlla,

kėtė mal e jatėrin." -

Ata ikur, Zonja Rinė

zu hjidhi mbi tė vėllanė:

- "Radavan, vėllau im,

ndė nani tė trėmben

lip kur ishe i gjallė !" -

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perdč Rina il fratello

il fratello Radhavano,

ed ella lo cercņ,

gemendo nel suo duol,

tre lunghi dģ col sol,

tre notti all'aria bruna

col raggio della luna,

ma sempre invano.

Infine ella trovņ

il fratel suo ucciso

nella piązza di Nauplia,

Il capo aveano al misero reciso.

Pianse Rina il fratello;

gli orfani l'aiutarono

e il pietoso fardello

la donna caricņ su un mulo nero

e ritornņ sul percorso sentiero.

Lungo il cammin, la sera,

presso un torrente ella si riposņ;

la spoglia del fratello scaricņ,

e con la sua bandiera

sul suolo la coprģ.

Passa intanto di lģ

il feroce Arminņ con la sua schiera.

-Rina, una goccia d'acqua mi concedi.

-lo non ho dove dartela, lo vedi.

-Fa della man scodella.

-Le dita mia son cariche d'anella

e l'acqua ne cadrą,

ma se una goccia vi si fermerą,

quella goccia č serbata al mio signore.

Tu, cane e traditore,

con me non indugiarti pił a parlare,

perché se mio fratello sveglierņ,

ridurre a brani a brani vi farņ

-Rina, per caritą, non t'adirare,

lascia che questo monte

passiamo e l'altro che gli sta di fronte.

Partiro i tristi e intanto

sul fratel Radhavano.

Rina proruppe in pianto:

-Fratello mio, fratello Radhavano,

se ancor tanto timore

ispira il tuo valore,

tal che la gente fugge impaurita,

pensa quand'eri in vita !

 

 

Skandėrbeku Vellamjes - Skanderbeg della Vellamja  

 

Skandėrbeku njė menatė

po m'e mbjoth trimėrinė,

po m'e mbjoth adhe m'e ftoi

me mish derri e lepurish,

me krera thėllėzazish

me ile mėshtjerrazish.

Kur ish pėr me fėrnuar,

duall ndėr dritsorezit,

skomollei njė spium.

"Se ju shokzit e mi,

tradhėtim ė ndėr ne !

Cili ndėr ju mė gjėndet,

te me vere nd'ate rahj,

tė mė shorė ē'bėnet ?"

Mosnjeri ndėr 'ta m'u gjėnu.

Ai hipi kalėthin

e m'u nis e vate vetė,

e mė gjet tė pabesin:

"Se ti qen e i pabesė,

o m'e siell o t'e siell ! "

Mė ja suall i pabesi

e m'i preu brezthin.

Mė ja suall Shandėrbeku

we m'i preu krahthin

e i lavosi kalėthin.

Kur ata luftojėn

me m'e rrunė armiqt,

e m'u shtu ndėpėr ata.

Kur ish dy orė ditė

mė u pa i bjerrurith.

Ngrėjti syzit ndėr qiell,

lypi ėndejesė t'Inzoti :

Shėjt i math, Shėn Kolli,

ndihem Ti si mė ke ndihur !

Shtu syzit ndė nj'anė,

vu kufģ tė kunatin:

"Dukagjini, im kunat,

po sa ruajėm krahzit,

se Shejt'i Math Shėn Kolli,

me ngallosėn diellthin,

t'i jap mort kėtij qeni ".

E m'u shtu ndėpėr ata.

Kur ish dy orė natė,

mė fėrnoi luftėzėn

e perėndoi dielli.

"Se ti Zot e Zot'i Math,

sa mė kė vrarith ? "

"Nėndė mij e gjashtė qind;

ca m'i vrava e ca i lavo sa

e nėn shpatėn gjithe i shkova !

Fuqia ime nėng qe,

se qe dora e t'Inzoti;

por me nėndė qind trima,

gjithė tė zgjedhur nd'Arbėrit ! "

Skanderbeg una mattina ,

riunģ la gioventł

e a banchetto la trattenne.

Vi era carne di cinghiali,

di leprotti e dģ pernici

e di lombi di vitelli.

Sul finire del banchetto

s'affacciņ alla finestra

e vi scorse una spia.

-Orsł, voi compagni miei,

qui qualcuno ci tradisce! , -

Chi tra voi si sente il cuore

di salir su quel colle

e veder cosa vi accade ? -

Ma nessuno a lui rispose.

Ei, montato sul cavallo,

sol soletto incamminossi

e incontrņ il Rinnegato:

-O tu, cane rinnegato,

su! colpisci, o ti colpisco !

Lo colpģ il rinnegato

ed il cinto gli tagliņ.

Lo colpģ poi Skanderbeg

ed un braccio gli tagliņ,

gli ferģ pure il cavallo.

Ma nel mezzo del duello,

i nemici ecco arrivar:

tra lor Skander si gettņ.

A due ore dalla notte

Ei perduto si credeva,

alzņ al cielo allora il guardo,

chiese aiuto al sommo Iddio:

-Tu, gran santo, San Nicola,

come sempre ancor m'aiuta! -

Indi si guardņ d'intorno

e vi scorse il cognato:

-Dukagjin, cognato mio,

sol mi guarda tu le spalle,

chč il gran santo, San Nicola,

per me il sole fermerą

perchč uccida io questo cane.

E gettossi nella mischia.

A due ore della notte

la battaglia era finita,

ed il sole tramontava.

-Signor mio, mio gran Signore,

quanti tu ne hai uccisi ? -

-Nove mila e seicento,

altri uccisi altri feriti,

io passai a fil di spada !

Ma non fu pel mio valore:

fu la mano del gran Dio

con novecento giovani

tutti scelti in Albania! -

 

Vjershe e Graxeta  - Epigrammi e Distici

 

1

Shkova ka dera jote e ng'ish njerģ

dola ka udha kroit e nėng tė pe,

kėrkova gjitoni mbė gjitoni

e mosnjerģ mė tha se ku ti je;

njė miegullėz e zezė m'u vu ndė sy,

m'u salltin trutė e m'u err gjithė ky dhe;

me sytė mbė lotė u prora prapė ndė shpi,

i pisruar si zoku pa fole.

2

Thėllėzez, ēė ka mali fjuturove

e prėzė mua erdhe e m'u kumbise,

me ruajte me ata sy e trutė m'i mbjove

e mbrėnda te kjo zėmėr ti m'u stise.

3

Oi mes-holl'e dredhurėz si dhri,

njatėr, si ti, kopile nėng ė mė,

se bukurizit tėnd ng'i ka njerģ

e u i ziu shėrtonj e gjumė ngė zė.

4

E losen, bukuritė -si bore kur vera e ēon,

si nj'yll ēė nd'errėsitė -shkrehet e strallambar

pėstaj shuhet ky lihnar -e gjindja na harron.

5

Ishin dy thėllėza ndė njė degėz ftoi

e mė e madhja keq mua mė pėlqeu,

kurmin m'e ēeli e zėmrėn m'e shpoi,

si petriti m'e pa mua m'e rrėmbeu.

6

U dolla jashtė e pe si vejin retė,

kėshtu pėr tina, vashė, mė sillen trutė.

7

Kisha njė zėmėr e ti, vashe, m'e more,

nani ti rri me dy e u pa fare.

1

Passai per la tua porta e non vi era nessuno;

uscii verso la via della fontana e non ti vidi;

cercai di vicinato in vicinato

e nessuno seppe dirmi dove tu eri;

una nube nera mi velņ gli occhi,

mi vacillņ la mente e mi s'oscurņ il mondo intero;

con gli occhi gonfi di lagrime tornai a casa,

triste come 1'uccello che ha perduto il nido.

2

Pernice, che dal monte sei volata

e sei venuta a posarti a me d'accanto.

mi hai guardato con quegli occhi e mi hai ripiena la mente

e mi ti sei murata dentro questo cuore.

3

O flessuosa, agile come la vite,

un'altra fanciulla come te non v'č,

chč la tua beltą non hanno l'altre,

e sospiro io misero e non prendo sonno.

4

Dissolvesi la brezza -come la neve in primavera,

come stella che nell'oscuritą -fila splendente;

poi questa luce spegnesi -e tutti ci dimenticano.

5

Erano due pernici su d'un ramo d'albero (melocotogno)

e la pił grande a me piacque assai,

mi accese il corpo e trapassommi il cuore, 

come il falco la vide, me la rapi.

6

Uscii fuori e guardai come vagavano le nuvole,

cosģ, per te, fanciulla, vagano i miei pensieri.

7

Avevo un cuore e tu, o fanciulla, me l'hai preso:

ora tu ne hai due, ed io son senza.

 

VĖLLAMJA E MOTĖRMA

 

Ditėn e Analipsit, djemat e katundit bėjėn vellamjen; vashat bėjėn motėrmat, vec jo bashke. Mbjidhen ndėr dy shpi; nga njė qellėn tė ngrėnė t'hanė gjithė bashkė.

Pas drekės, djemat me djemat e vashat me vashat, zėnė vallen e tue kėnduar kėngėn e Skanderbekut (N. 14) venė mbė Qishė.

Te dera e Qishės, hijėn tue kėnduar "Anelifthis en dhoksi...". Vėhen rrotull pėrpara Ikonostasit, mbi Sollenė. Pėrpara Korės se Zotit Krisht ėshtė njė tryes e vogėl e veshur e kuqė e mbi tryesėn Vangjeli. Atje rri Zoti me petrahjilin e thotė:

"Evlolitos e Theos imon... Vasilev uranie Alos o Theos... Dhoksa Patri... Panalia Trias... DhoksaPatri... Paterimon Otisuestin " Gjithė kėndojėn: "Anelifthis en dhoks,"' Kėtu Zoti veshėn Fellonin e thotė: "Qe iper tu kataksiothine imas "... e kėndon Vangjelin. Gjithė vėhen nėn Vangjelit pėrgjunja, djema e vasha. Pėstaj ngrėhen e puthjėn Librin Shėjtė. Kur gjithė e puthėn, Vangjeli vėhet mbi tryesėn e djemat vene dorėn e djathtė pėrsipėr. Zoti i mbulon duart me Petrahjilin, thotė: " Tu Kyriu dheithomen" e lutjen. Pėstaj njeri-jatrit zėnė njė cimb tek dora tue thėnė: "cimb njė e cimb dy, vėllau im le ti"'. Pas djemavet bėjėn ashtu edhe vashat, me dorėn mbi Vangjelin, Zoti i thotė lutjen e keshtu zėnė cimbin tue thėnė: "cimb njė e cimb dy, motra ime le ti “.

Kur gjithė sosjėn, thonė bashkė, vashat vashavet e djemat djemavet: "Gjaku im ėshtė gjaku yt, shpirti im ėshtė shpirti yt". I thotė Zoti: "Ruhi, bij, ka lėtiri, si druri ka topra". Pėrgjegjen gjithė: "Derk e lėti mos e sill mbė shpģ, se t'ēan poēe edhe kusi"'.

Te vehėt re se vashat e djemat nėng mund' te ndėrronjen gjakun bashkė; ndė se e bėjėn, bėhen njė gjak si vėlla e moter e s'mund t'martohen.

Zoti i bekon, thotė " Etisin e Apolysin", puthjėn Korėn e Zotit Krisht e Shėn-Mėrise tue kėnduar " Anelifthis ..." Dalėn nga Qisha mbė valle tue kėnduar kėngėn e Beses (Kostandini e Jurendina N. 5). Rrethonjėn gjithė udhėt e katundit e, tue sėrposur, mbjidhen ndė shpit.