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Cotesti signori, per quanto ricchi di meriti verso i principi cattolici, e verso la patria loro, altrettanto erano stati ammiseriti dalle guerre. In un paese come l'Albania privo di commercio, ove poco sapevasi tirare dal suolo, niente dalla industria, la ricchezza consisteva nel possedere più o meno scorte di derrate, e numeroso gregge. I più poderosi fenda tari maneggiavano poca moneta , vivendo ancor essi una vita semplice tuttoché posessori di vaste estensioni. Ai maggiori bisogni supperivano con un traffico limitato mezzo delle permute. Quando poi vi presero credito le monete bizantine, veneziane, e fin le turche, quando conobbero il valore dell'oro ne divennero

 

(1 Ex tabulis Mario qu. Bartolomei de Benedictis Urbinatis Notarj.

2) Cesare Clementino Stor. di Rim. Lib. IX. pag. 533.

3) Diplomi dei Dogi Agostino Barberigo del 15 agosto 1499, e Leonardo Loredano del 15 marzo 1568.

4) Rod. Del rito greco in Italia Tom. III Pag. 51

5) Muratori Annali. An. 1733. Vedi pure Dizionario biografico universale.

 

 

 

cupidi, taluni pochi prevaricandosi diedero i più tristi esempi di corruzione e di tradimento. Nella generale scarsezza di capitali metallici neanche la classe agiata ne possedeva tanti da non aver dovuto gradire gli altrui soccorsi. Dopo una lotta micidiale annosa, che troncate aveva le braccia alla coltura, e tutto un territorio devastato, alcuni Albanesi prima di risolversi a passare nella Sicilia con delle piccole colonie ottennero dal re Ferdinando di Aragona raccomandazioni per lo zio Giovanni, regnante nell'isola dal 1458 al 1479, e questi nello ammetterli esentò un Pietro Emmanuele de Provata, un Zaccaria Croppa, un Pietro Cuccia , un Paolo Manisi, e chiunque altri avesse potuto dimostrare nobiltà, dalle collette, imposizioni, gravami, gabel­le, ed altre contribuzioni fiscali già imposte, e da imporsi per la loro vi­ta durante (1). Comunque un simile privilegio si fosse espresso a favore de' nobili soltanto, pure ricordando la società di allora composta dell'alto ceto e dei plebei, senza lo stato intermedio dei tempi nostri, il beneficio ri­cadeva anche per i coloni , che se tributo e altro corrisponder dovevano eran devoluti ai loro padroni, e questi non lo pretendevano, posta che dessi al fisco nulla sborsavano. Non pertanto la esenzione non perde del suo ca­rattere personale , e di temporaneità , essendo stata fatta ai soli capi di quelle colonie, andate a stabilirsi in Sicilia, non per i successori, né per altri. Daltronde questi privilegi personali poco o nulla giovarono, perciocché gli Albanesi «per sostentare la vita, come dice il Mugnoz, s'impiegarono chi all'agricoltura ed agli armenti, e chi alla milizia in servizio del Re cat­tolico» ciò vuol dire che chi non potè impiegare un braccio al maneggio della spada dovette stenderne due a lavorare la terra, o altro simile mestiere intraprendere. Tranne pochi adunque la condizione loro in quella isola non fu gran fatto differente da quella degli altri stanziati nel continente. Questi non godettero esenzione alcuna per privilegio del governo, o almeno deve ritenersi così in mancanza di diplomi, per comprovarlo. La generalità rimase allo arbitrio dei loro capi, o dei Baroni nei cui feudi entravano a servire, e come vassalli furon trattati. A pagamenti fiscali non vennero chia­mati se non quando si costituirono in famiglie, ed il governo generalizzò a tutti, salvo poche eventuali eccezioni, la così detta tassa dei fuochi. Vale dunque d'internarci un poco ad esaminare quale si era la condizione politica economica di allora, onde conoscere meglio quella a questi profughi spettata.

 

8

 

Nel tempo in cui dessi per varie direzioni s'incaminavano, l'Italia divisa più degli altri Stati trovavasi fra le mani di tanti Baronetti superbi e nemici, i quali erano stati costretti a supportare lo ingrandimento dei figli di Tancredi,

 

 

 

(1) Noa Joannes Dei Gratia Rex Aragon ece. Per litteras. “Illustrissimi Regis Neapolis Ferdinandi nostri Nepotis, erga nos comendati sunt Petrus Emmanuel de Preveto, Zaccaria Croppa, Petrus Cuccia, et Paulus Manisi, Nobiles Albani, seu Epirotae strenui contra Turcos et clarissimi et invictissimi Ducas Giorgi Castriota Seanderbegh Albaniae et Epiri principis ac eiusdem consanguinei, aliique nobilis Albanenses qui in nostrum regnum Siciliae transeuntes cuin non nullis coloniis illei abitare preten­dunt. Ideo confisi nos de corum cattolica Religione integretate, coset omnes nobìlis Albanenses sive Epirotas liberamus de omnibus collectis impositionibus, gravitiis et aliis in predicto nostro Regno impositis et imponendis; corum vita durante tantum praedictos De Preveta, Croppa, Cuccia, et Manisi et alios qui corum nobilitatem estenderunt”. (Vedi Dorsa Pens. pag. 75).

 

 

e questi dalla scaltrezza loro smaliziata per mantenersi riconobbero il protet­torato dei Papi; con ciò si guadagnarono il nome di principi pietosi, le loro armi furono benedette, le conquiste dichiarate giuste. D'allora ebbero maggior vigore le influenze della Chiesa sulle terre e sugli abitanti, e si videro col­locati a fianco dei feudatari laici anche gli ecclesiastici. Colle commende si passò dai benefizi semplici a chiamare il popolo ad una più stretta ubbidienza, quindi al pagamento di moltiplici tributi con vari nomi ad ogni occasione impo­sti. Tutti gli obblighi dei suggetti verso i Commendatari furono sperimentati più aspramente nelle Calabrie, ove la feudalità era più favorita dalla topografia dei luoghi. Questo flagello della umanità preparato dai Normanni fu dagli Svevi temperato con molte leggi ristrettivi delle facoltà baronali. Gli Angioini impadronitisi del regno di Napoli ancor essi dal favore pontificio, e dal con­corso dei Baroni ne rinvigorirono la istituzione. E quando poi la stirpe Ara­gonese vi subentrò, Alfonso sebbene si acquistasse la riputazione di savio e di magnanimo, con poco sapiente consiglio dilatò il feudalismo, cagione precipua di disordini d'inceppamento nelle pubbliche amministrazioni, e di niuno progresso nel popolo. Suo figlio Ferdinando appena salito al trono concepì, è vero, il disegno di restringerne le attribuzioni, ma non bastan­temente fermo a capo di tanti prepotenti ebbe a sostenere una guerra, finita con un trattato di pace, come se i Baroni fossero stati una potenza costituita, e finché lui visse acre discordie il regno agitarono.- Alle conseguenze del feu­dalismo aggiunger si debbono i frequenti palpiti, perché l'alterigia dei feudatari mal sopportando il potere della corona con segrete pratiche ora i Fran­cesi, ora i Tedeschi, talora gli Spagnoli, e per fino i Turchi ad invadere il regno incitarono.

Non gravava meno la confusione delle leggi, anche in seguito alle ri­forme di Federico, e le prammatiche angioine ed aragonesi. Le materie giudiziarie imbrogliate colle amministrative, le competenze non ben di­stinte, la procedura subdola rendevano eterni i litigi, e la giustizia un nome vano; gli effetti s''ingorgavano nelle farragini delle disposizioni, e nei rigiri dei curiali. Nel ramo penale era anche di peggio; il processo soltanto inquisitoriale, i ceppi, le torture , ed altrettanti strazi, da cui meno se ne poteva attendere il vero, costituivano i mezzi di pruove. Le giurisdizioni esercitate dai Baroni e dai commendatari ; essi definivano le contese civili, ed i reati criminali, ma non potevano pronunziare sentenze pei reati punibili colla morte civile, né per gl'imputati di omicidio, di mutilazioni, dovendosi discutere le cause dai giustizieri delle provincie. La estensione dei diritti feudali concessi dalle diverse dinastie aprì il campo alla investitura del mero e misto imperio, per lo quale taluni Signori arrogavansi le decisioni civili e criminali in discapito degli altri. Non chiarita la natura delle quistioni sorsero le cos'i dette cause miste ad animare vieppiù le di­scordie, e lo intralcio dei procedimenti. Abbiamo voluto toccare queste basse corde di quella età, perché più direttamente sul popolino si vibravano; e per mostrare che l'onore cavalieresco esaltato al grado di virtù per proteggere la religione il coraggio l'amore attrasse i bisogni intellettuali, e fra le menti confuse dall'oscurantismo e dalla corruzione, i Baroni colla forza, il clero colla fede tutto allo imperio loro sottomettevano.

 

9.

Or tra per questo, tra perché lo straniero cui più dolce ferve lo amore di patria facilmente si rivolge a chi proteggendone la debolezza meglio può lenire i patemi del cuore, gli esuli Albanesi nella incertezza dello avvenire si diressero nelle Puglie, nelle Calabrie, nella Sicilia, sperando quivi una più benevole accoglienza, per la gratitudine loro dovuta dal Sovrano aragonese per la protezione degli Abati ed infine per opera dei più sentimenti mani­festati dal Papa a prò degli avvanzi di un popolo cosi benemerito della Chiesa.

Quelli che in gruppi sbarcarono sulle marine del napolitano avrebbero voluto congregarsi tutti in un punto isolato, potendo così meglio conservare il rito ed i costumi; ma 1' alterigia dei Baroni poco gradiva quei vasti aggre­gati, e senza lo assentimento di costoro l'unione in un centro solo non potè effettuarsi; invece rimasero liberi nella scelta di abitare nelle tenute laicali, od ecclesiastiche. Molti accorsero nei feudi di Pierantonio Sanseverino Principe di Bisignano Signore di estesi poderi nella Calabria citra, il quale avendo sposata Irene discendente di Castriota volentieri li accolse, e come vedremo benevolmente li trattò. Erano in gran parte della razza dei Mirditi,  qualcuno li chiamò i neri, più perché andavano sempre vestiti a bruno che per essere appartenuti alla tribù degli Ussi (1). Laonde questi profughi rinvennero uno appoggio nelle Calabrie come altri rinvenuto lo avevano presso Giovanni di Aragona in Sicilia. Non pertanto arrivati alla sprovvista in luoghi del tutto ignoti, dai volti emaciati, dalle vestimenta di foggia estranea, con i peculia­ri costumi, ed una incomprensibile favella, come Paolo II al Duca di Borgogna generalmente li descrisse, fino a quando non furono compresi e ricoverati restarono incerti sotto mal conce pagliaio, armati e soggetti a chiedere un sostentamento, o a procurarselo colla violenza. In tale stato perdurarono prima di concordarsi con i feudatari per riceverli a coltivare le terre pagandone un corrispondente tributo.

Dai Normanni agli Svevi il popolo pagò al regio tesoro una somma, che il clero i baroni i magistrati in congrea stabilivano, ordinando balzelli sul consumo, sulla proprietà, sulle vestimenta, onde la vita e le sostanze andarono tassate colla vaga dicitura dell'uso e delle consuetudini, i cui limiti rimanevano estensibili sempre a seconda degli smodati bisogni dei governanti. In tempi in cui mancavano le risorse dell' arti e dell' industria, quando il commercio languiva nelle difficoltà del transito, e l'agricoltura in generale poco produceva per la ignavia e la pochezza delle braccia, con tutte quelle im­poste, lo spirito umano veniva compresso da una lotta morale dagli Albanesi meno degli altri sopportata. Erranti quali avvanzi miserandi di rabbiose guerre, ridotti poveri e affranti, lungi dai luoghi nativi, senza avere più stretti come prima i sacri legami del culto, della parentela, dei costumi, della lingua onde per lo passato eransi congiunti, non ammettevano sì di leggieri dovere esser fatti segno ancor essi alle vessazioni ed alle calamità, sotto cui Siculi e Napolitani gemevano. I Baroni affittavano o vendevano i loro diritti su i feudi, così creavano degli Agenti intermedi più prossimi ai contribuenti, più adatti a mantenere separate e lontane le due classi della società, quale nel pieno vigore dei tempi medievali trovavasi costituita.

Dopo di essere stati per lunga pezza sbattuti dai flutti della miseria e dalle malevoglienze, alla fine stipularono con i Baroni e gli Abati dei par­ziali capitoli. « Tra i due essi scelsero il protettorato degli Abati, poiché erano persuasi che il vassallo della Chiesa è stimato più nobile dei vassalli del Principe secolare, e stimavano malagevole essere sudditi di privati Ba­roni (2). Con ciò rispettavano pure la memoria di Scanderbegh, il quale col presentimento della generale caduta del suo paese anticipatamente li raccomandò.

  

(1) Bal. Geo. Ediz. Tor. 1834.

(2) Mugnoz. Op. cit. Famiglie di Sicilia pag.  303

 

10

Papa Pio II, a questi come già dicemmo, aveva permesso di stabilirsi nei feudi ecclesiastici. Inoltre seguivano le loro naturali tendenze religiose, e il costante affetto alle proprie tradizioni. Venne loro data la facoltà di costruire pagliare, e case n fabbrica a proprie spese in determinati punti dei territori feudali, tanto più là dove la popolazione scarseggiava in rapporto alla esten­sione. Nelle Calabrie occuparono alcuni casali caduti in rovina per un forte terremoto avvenuto nel 1456, rimasti deserti e spopolati: sorsero e crebbero cosi i villaggi ed ì  Paesi di sopra indicati. Ottennero un uso limitato dei diritti civici, come sarebbero dei mulini, della legna da ardere, dell'acqua potabile, del passaggio e poi altre minime concessioni bastanti appena ad allegerire i primi bisogni della vita. Da parte loro gli Albanesi assunsero gli obblighi di periodiche prestazioni in segno di ubbidienza, il servizio presso le Chiese nei dì festivi, un numero di giornate di travaglio gratuito all'anno, indi poi la decima sugli animali, che guidavano a pascere nei prati dei feudatari; alcuni presero la ferma nelle terre abbadiali con altri pesi, e altri diritti consentanei allo spirito dei tempi (I). Gli Abati ne tirarono anche dei vantaggi avendo avuto a loro uomini ligi e fedeli, poiché gli Albanesi come il Masci scrisse « tutto che di natura volubili sono però fedelissimi e circospetti verso 1" amico, verso il padrone. I nemici di ogni simulazione o tradimento sono i più puntuali in quelle amministrazioni, che loro vengono affidate. Ma al pari di tutti i barbari si credono lecito cogl'inemici usare l'inganno e le fallacie » (2).

Stabiliti in cotal guisa non divennero coloni, ma quanti ne scrissero per distinguerli dai naturali dal nome collettivo le colonie albanesi additarono. E di vero gli Albanesi erano i meno adatti per costituire delle colonie agri­cole come genti date alle armi. Non dimeno obbligaronsi a lavorare alcune giornate a prò de' Baroni, se corrisponderli dovevano dei tributi ciò per altro era la Osservanza degli usi feudali quasi a tutti comuni, forse più gravosi per essi. Potevano dirsi aldiani, ovvero uomini posti nel medio evo in uno stato di mezzo fra libero e servo il cui ufficio era di coltivare i campi e stare armati, era una classe della loro antica distinzione sociale per cui vi si adattarono. Le convenzioni scritte stavano, ma in caso di quistioni con quali leggi risolvevansi? da chi potevano implorare giustizia? Quella eterna lotta tra le pretensioni e la indolenza, che durerà chi sa per quanto altro tempo nella umana famiglia spesso componevasi col diritto della forza; non è quindi tutta colpa loro se talvolta ancor gli Albanesi alla forza ricorsero, anzi è molto che nel miglior modo se ne cavarono, vivendo una vita incerta e se­gregata malvisi e mal graditi dai naturali.

 

(1)  Dai diversi Capitoli stipulati tra i Baroni e gli Albanesi rimangono i seguenti: Di San Demetrio  collo Abate del convento di San Adriano nell' anno 1471.  Di Firmo col Priore dei Padri   predicatori   di  Altomonte   nel   1486.   Di Percile e   Frassineto con Monsignor Tomaselli nel 1491. Di Lungro con i signori di Altomonte nel 1502. Di San Basile col Vescovo di Cassano nel 1510. Della Piana dei Greci collo Arcivescovo Morreale nel 1487. Di Mezzeiuso con Monsignore Alfonso di Aragona Commendatario del Monistero Benedettino di San Giovanni degli Eremiti nel 1501. Di Palazzo Adriano con Giovanni Villarant nel 1507. Di Contessa col Barone Alfonso di Cordova nel 1517. Di Santa Croce di Magliano nel 1470. Di Ururi nel 1540 con Monsignor Ferrando Merdona. Di Chieuti con Monsignore Apicella Ferdinando nel 1680.

(2) Masci Disc. sulle Colon. Alban. pag. 48.

 

 

11.

 

(1501-1506) Passati alcuni anni, sul trono di Napoli Federico di Aragona succeduto al nipote Ferdinando vacillava, e per la inimicizia deli re di Francia Luigi XII, e per quella di Ferdinando V re di Spagna , i quali agognando entrambi di detronizzarlo, e assieme godersi il regno, cia­scuno alla volta sua apprestavasi a raunare armati ; e poiché gli Alba­nesi dallo istinto di guerra correvano dovunque uno squillo di tromba si udiva, aventi ancor fresche le tradizioni dei servizi rendati agli Arago­nesi e i benefizi riscossi, anche tra le schiere spagnole arruolaronsi. Un Demetrio Capuzimada, un Chiuchiaro , un Teodoro Biscari, un Misacchio furono i primi, e molti li seguirono dei paesi albanesi di Napoli e Sicilia (1). Essi e i loro compagni vi portarono la istituzione della cavalleria leggiera fino allora poco nota, avvezzi a quell'evoluzioni svelti nella persona, sep­pero fare bella mostra, nome acquistarono. Un'altro grosso squadrone di cin­quecento uomini fu organizzato da un certo Nicolo Masci di Napoli di Ro­mania, avendo cambiato l'elmo in una speciale copertura del capo si chiama­rono i cappelletti (2). Il Davity lodevolmente ne scrisse: “Sono più bravi a cavallo che a piedi, ei dice, non si stancano mai, né lasciano riposo al nemico. La cavalleria è stimata in Italia più di tutte le altre, che il re di Spagna vi mantiene”. Anche il re francese muovendo contro Genova ne prese a soldo duemila , e meglio cominciarono a comparire in un corpo distinto facienti parte delle così dette compagnie di ordinanze, ovvero delle milizie stanziali diverse dalle collettizie levate nel bisogno (3).

Occupato il reame di Napoli ben tosto i due pretendenti non furono di accordo a spartirlo, la decisione lasciata all'arbitrio della guerra fece si che il gran Capitano Consalvo di Cordova ne scacciò i Francesi, e si aprì la più trista epoca delle due Sicilie, quella del viceregnato (1503). Quaranta Vi­ceré, e venti Luogotenenti sgovernarono il regno; l'isola e il continente di­ventarono due grandi provincie di uno Stato straniero, finché vissero i re di Spagna di ceppo austriaco o spagnuolo dipesero dal supremo consiglio resi­dente ora a Madrid ora a Vienna.

In quei tempi di rattristanti ricordi la condizione degli Albanesi era presso appoco quella della gente indigena, gli stessi padroni, le medesime leggi, egualmente aggravati da tasse perenni, eccettuate per pochi, sem­pre dirette ad impinguare le scarselle altrui; se non che indossando essi la divisa dello straniero fra le intolleranze dei piccoli paesi furono più degli altri tenuti di mira, spesse fiate seri disturbi avvennero, ed in produrli nei primi anni si fecero conoscere. Se di questi profughi allo spuntare del de­cimonono secolo si scriveva così: «Non sono affatto servili, anzi uno spirito di libertà si mantiene tra loro non ostante la depressione cagiona dalle prepotenze, e dal baronaggio» (4) queste parole bene accennano a quanto soffrire dovettero di oppressioni e di amarezze nei secoli anteriori. Stranieri,  dal piglio agreste, sempre mai alteri mal cedevano all'esigenze dei Signo­rotti, sdegnosi e molto corrivi alle armi non se ne cattivarono la benevolenza pur meritata dalla nobiltà della causa, per la quale trovavansi in estranei

 

(1) Paolo Giovio Hist. Sui temporis lib. 26 e 29.

2) Idem bib. 19.

3)Davity Descript, de l'Europe pag. 1143-1144. Cantù stor. universale Tom. IX. pag. 252.

4) Masci Disc. pag. 48.

 

 

luoghi. A vero dire le colpe di uno stato mai sempre agitato debbonsi ascrivere a tutti, le conseguenze furono ben deplorevoli. Noi lo andremo espo­nendo, avvalendoci dei detti stessi di uno erudito scrittore albanese giù più volte citato, uomo di stato il quale scriveva nel 1807, e nello esporne la con­dizione fu il più veridico e il più sincero. «I Baroni e le Chiese, fra le altre cose scrisse il Masci, invece di proteggere gli Albanesi, che formavano la loro ricchezza, li hanno piuttosto gravati di tanto soverchierie che fa orrore di sentirle. Le angarie, le perangarie, le indebite prestazioni non potevano non avvilire il coraggio dei Coloni, e far languire nella miseria la nazione. Dove l'intera giurisdizione sulle Colonie è stata dei Baroni, ivi il dispotismo da una parte e la depressione dall'altra han reso squallido tutto il paese. Dove poi la giurisdizione è stata divisa, cioè la civile della Chiesa, la criminale del Barone secolare ivi la scostumatezza degli abitanti l'impunità dei delitti e l'avidità degli Ufficiali han tenuto sempre in disordine la popolazione» (1).

 

12.

 

(1506-1508) Dal canto proprio gli Albanesi non portarono con essi che un nome quasi perduto tra i Greci, una lingua da lungo tempo già morta, ed una fede a costo del proprio sangue conservata. Le gesta dei primissimi an­tenati erano da tutti sconosciute, quelle dei loro avi tramandate, esagerate e confuse, le sole guerre di Scanderbegh avevano dei pochi ripetitori, e queste bastavano n farli superbi del nome albanese. E pur la rinomanza del co­raggio spiegato in cinque lustri di una guerra di distruzione combattuta colla tattica suggerita dalla intralciata topografia dell'Albania europea li fen­deva superiori ad ogni sventura, e siccome la spada era stata di tutti l'u­nico retaggio la guerra avrebbe dovuto seguitare ad essere il loro mestiere; invece accolti dallo Aragonese furono dai Baroni destituiti a ripopolare i de­serti villaggi , e a ridurre a coltura le non poche tenute boscose, massi­mamente nelle Calabrie. Essi però «con meno faciltà si persuadevano di arare la terra cavandone un lucro quieto e sicuro, che di prendere le armi ed azzuffarsi con gl'inimici, anzi stimavano così pigra ed inerte l’acqui­stare con sudore ciò che si può col sangue » (2). Accomunandosi con gl'i­taliani ne derivò uno insieme di elementi diversi, non stretti da vincoli di sangue, non informati a dolci sentimenti, l'uno su l'altro pretenzioso, laonde non potevano vivere né tranquilli né felici. Non essendosi pensato a mante­nerli nello ambiente militare, come in un certo modo aveva praticato Al­fonso Idi Aragona della gente di Demetrio Reros, ne derivarono ben dolo­rose conseguenze. In allora gli eserciti stanziali appena comparivano nelle compagnie di ordinanza, in cui grossi squadroni di Albanesi, come abbiamo già detto facevano parte al servizio del re di Francia, ed a quello ili Spagna. Se per gli altri destinati alla coltura si organizzavano delle separate colonie con assegni di terreni a coltivare di proprio conto, dopo di averli forniti dei mezzi necessarii forse can meno retrosia vi si potevano adattare, ed a capo di qual­che tempo avrebbero retribuiti largamente i concessionanti con canoni annuali, i loro paesi avrebbero avuto un più pronto sviluppo, molti malanni si evitavano.

  

(1)  Masci Op. cit. pag. 67.

(2)  Masci Op. cit. pag. 48.

 

E’ inutile oggi la censura su quanto potevasi praticare quattro secoli fa, ma tacerò non si possono le conseguenze della niuna organizzazione delle colonie, poiché gli Albanesi «quando non avevano occasione di mettere in esercizio le loro armi erano la gente più dedita all'ozio» (1) e questo ozio inveterato con gli anni, di molto ne aggrava la condizione.

A meglio rannodare le cause con gli effetti, o non confonderò in un fascio solo i buoni con i tristi, giova ricordarci che, oltre allo famiglie no­bili por noi accennate, decadute dalla possanza, spogliato dei beni, oltre ai notabili tra i capitani, i quali per non vedere oltraggiato l'onore militare emigrarono per offrire i loro servizi a stranieri potentati, moltissimi non ave­vano che il sentimento religioso esagerato dallo spirito medioevale, e solo cer­carono di sfuggire l'obbrobrio dello islamismo; impossibilitati al commercio, sconoscenti delle lettere abborrivano il lavoro dei campi «e di adattarsi allo esercizio delle arti era per loro quasi impossibile» (2). Il volgo giàù per­vertito dal mal governo tenuto dai re stranieri nell'Albania , abituato alla protezione, ed alle semieguaglianze dei Proceri connazionali, dedito alle guerricciuole, alle scorrerie, prodigo e rapace insieme, quando si vide cacciato in un altra atmosfera sociale non sapeva adattarvisi. Pur non dimeno in quei luoghi dove la natura e gli uomini presentarono più favori, più agiatezza , là piegandosi ad uno inusitato lavoro le aspre disposizioni degli animi si rad­dolcirono; la dove poi oltre all'asperità del suolo stavano abitanti non meno gelosi, austeri, e forse anche superbi, lo incivilimento ritardava per tutti. In mezzo alla forza ed al bisogno quelli più proclivi a ladroneggiare volentieri davansi a questa ultima risorsa degl'infigardi, ritenendola sempre un mestiere consentito dagli usi antichi « e ciò non solamente venne a for­mare un'ostacolo alla civilizzazione degli Albanesi, ma di più fomentò in questi il brigantaggio, eterna barriera di ogni coltura» (3). L'alterigia degli uni, le violenze degli altri, nello assieme la barbarie dei tempi meglio ap­pariranno dai provvedimenti nella bisogna inutilmente adottati.

In un parlamento convocato nella congregazione di S. Domenico in Na­poli nel dì 3 del mese di giugno 1506 al capo XX si leggono i comandamenti richiesti, ed ottenuti dai Baroni di dovere gli Albanesi abitare luoghi murati, e di non esportare armi fuori delle terre, colla speciosa penale di non possedere cavalli o giumenti quelli si rimanessero nei luoghi e nei ca­sali aperti. Per nitro le proibizioni di tenere ed asportare armi di qualunque modello erano generali, le prammatiche dei tempi ne sono pieno. Per gli Albanesi riuscivano assai dure, dappoiché avvezzi alle armi non lasciavate mai al pare di tutti i popoli del Caucaso, dei montanari della Grecia e dei più fieri calabresi, non sortivano senza di andare armati (4). Ed aggiungere si deve che a loro riguardo anche molto dopo di quei tempi si disse « sono amanti di novità, e odiano la quiete » (5).

Di quanto poro effetto fossero tornate, quelle disposizioni puoi desumersi dalla ripetizione delle stesse premure fatte dai baroni due anni dopo in un'altro parlamento tenuto nella Chiesa di San Lorenzo anche in Napoli il 12 dicem­bre 1508 (6). Poi nel 1509 più tassativamente Cosenza, ed i suoi Casali supplicarono

 

(1) Masci Discor. Pag. 49

2) Masci op. cit. pag.48

3) Masci op. cit. pag.48

4) Famin Reg. Caneas.

5) Masci op. cit. pag.19

6) Vedi Privilegi  e Capitoli con altre gratie concesse alla fedelissima città di Napoli e Regno per li serenissimi Re di Casa d'Aragona pag. 93 e 107.

 

  Don Ugo de Mongada Luogotenente Generale nelle Calabrie, onde non facesse ulteriormente rimanere Albanesi Greci Schiavoni ad abitare siti erti   e domandavano di farli entrare nei luoghi murati, secondo gli ordini emessi a nome di Sua Maestà Cattolica. Si divenne per fino ad imporre lo sfratto da qualche, villaggio aperto, e con maraviglia i buoni cittadini colpiti da un provvedimento generico, in Percile obbligavansi di cingere quel paesuccolo di mura, e rendersi mallevadori presso i vicini dei furti, che gli altri .e forse non essi potevano commettere.

I Viceré meno di tutti studiarono l'indole albanese, non compresero di essere « uomini bellicosi, ai quali niente altro piaceva che le armi, facili ai ladronecci ed alle rapine, ma al contrario ànno in orrore qualunque menomo furto, che provenga da viltà di animo» (1). Onde nella idea di sempre più reprimerli un'altra disposizione emisero, e questa meglio dimostra a quali inettezze scendevano. Fecero per mezzo di pubblici bandi proibizione agli Albanesi di andare a cavallo con sella briglia e speroni, e di non entrare in città col cappello in testa, volendo con ciò imporre loro un marchio di ser­vitù, come alla più abbietta classe della società (2). Sul Caucaso il cavalcare si riteneva un privilegio, i Principi ed i Signori soltanto potevano andare a ca­vallo nelle guerre (3). Presso gli Ebrei e presso i popoli orientali chi portava la testa coperta dava segno di superiorità e di comando, presso altri per ragione del clima, o per convenzione sociale neanche lo inferiore scoprivasi la testa in presenza del superiore e così gli Albanesi praticavano: la proibizione quindi valeva per essi un'oltraggio. In prosieguo ritorneremo su questa eccezionale usanza. Quei trattamenti erano proprio dei Turchi, come abbiamo riferito nell'epoca precedente, questi li posero a base delle trattative di pace a quelli che combattevano per la rivoluzione greca, e per ottenere la libertà sui loro monti di Sulli. Duole il vederli proclamare tra noi, almeno conforta di essere stati ordinati da rettori non italiani.

13.

 

Non deve sorprendere quindi se le prime loro abitazioni presentarono per lungo tèmpo lo aspetto della ruvidezza e della precarietà, e talune a guisa di tane incavate sotterra potevano dirsi lo asilo della desolazione e dello squallore (4). Se intorno si fosse alzata una cinta murata dalle sue feritoie, e in cima una torre sarebbero comparsi non altrimenti degli abituri eretti su i clivi della Chimera e sulle balze di Sulli. Dove rinvennero i monisteri basiliani nelle stesse chiese col rito greco officiavano; molti occupa­rono i dintorni dei villaggi latini scarsi di abitatori o suggetti agli Abati. Ma le austerità dei naturali, e l'avversione dagli Albanesi molto sentita per lo straniero ignoto, agivano come due forze repellenti, gli uni dagli altri di­sunivano. Nello stesso paese talvolta con apposite demarcazioni segnaronsi i rioni dei naturali e dei nuovi arrivati. Fino ai tempi nostri un'arco esi­stente nella principale via di Firmo delimitava il quartiere dei latini pree­sistenti e quello degli Albanesi sopragiuntivi a seguito dei capitoli passati con i Padri Domenicani di Altomonte nel 1486.

 

 

1)  Mas. Ope. cit. pag. 50.

2) Vedi Protocol. 4. di Notar Donato in Castrovillari.

3) Fam. Reg. Caucas. pag. 41.

4) Maraf. Calab. illustr.

 

 

Nel Casale medesimo altri Albanesi vi pervennero allorquando il gran Sultano Bajazette Secondo apportò la finale soggiogazione in Albania. Alcune famiglie guidate da uno Alessio Comite d'illustre prosapia costantinopolitana, dal Principe di Bragalla furonvi ospitate (1499). Poco dopo quel generoso feudatario staccò dal suo territorio una zona di terreni boschivi ne costituì un suffeudo a benefizio del Comite, e questi esercitandovi la giurisdizione feu­dale man mano si rivesti benanche del titolo di Barone. Morto lui senza eredi la proprietà fu acquistata nel 1637 dal Cavaliere Giovanni Gramazia di Salerno (1). In qualche altro paese le porte, se ve n'erano, assegnavansi per la entrata degli uni non degli altri; in taluni paesi latini gli Albanesi furono prima ammessi e poi scacciati: così la legge si dettava sempre dal più forte al più debole, la prepotenza generava il servaggio.

14.

 

Pur non di meno quegli uomini superbi delle loro sventure, piegandosi loro malgrado ai lavori campestri, appunto quando i Baroni non sapevano rendere altrimenti produttive le loro immense tenute che colla seminaggione del grano, di molto giovarono ai disboscamenti, e alle dissodazioni, con tra­vagli duri, e di lunga lena. Dopo di avere a grandi stenti rabbonito il suolo si videro migliorati i loro nascenti paesi, ed entrare in tollerabili relazioni con i vicini. Le donne viragini del Caucaso ingentilite dalla dolcezza della Grecia, in onta al lungo svolgere degli anni ed i patimenti delle guerre pre­sentavansi come le Armene dai lineamenti che anno qualche cosa del tipo ebraico e greco; svelte, slanciate, dagli occhi vivaci sotto ciglia folte arcuate, dai capelli neri delle Mirditi, poche dalle chiome rosse delle texidi, sempre attive, laboriose cominciavano a dimostrarsi (2).

Le matroni meno soggette a stare chiuse invisibili allo sguardo profano quando il bisogno lo1 richiedeva occupavansi alla messe ed agli altri ricolti, distinguendosi dal particolare linguaggio, per la foggia di vestire per l'acconciatura del capo. Nei momenti d'ilarità più facili a spuntare a cielo aperto offrivano delle scene camperecce, intrecciando secondo il costume ai loro balli i canti nazionali. L'indole Albanese, quando non è corrotta, segue le massime del diritto reciproco tanto proclamato nel vecchio Egitto, tra gli Ebrei, e fra i Persiani dei tempi di Erodoto. Sono perciò più proclivi a stendere la mano alla sventura che a sberrettarsi alla presenza dei potenti, e ciò spesso facevanli correre dietro la mendica e le spigolistre su i passi dei mietitori (3). A tal proposito

 

(1) Veggansi i documenti presso la casa Gramazio in Firmo.

2) Bore Hist. de l'Arm, pag. 125.

3) Mosé disse:  « E quando voi mieterete la ricolta della vostra terra non mietereaffatto il canto del campo, e non spigolar le spighe tralasciate dalla tua ricolta. E non racimolar la tua vigna, nè raccogliere i granelli; lascili a' poveri, e a' forestieri ». (Lev, XIX. 9 e 10). Quando tu avrai scossi i tuoi olivi non ricercare a ramo a ramo ciò che vi sarà rimase dietro a te; e sia per lo forestiere, per l'orfano, per la vedova. E ricordati che tu sei stato servo nel paese di Egitto; perciò io ti comando che tu faccia questo. (Deutor. XXIV. 20 e seguenti).

Un canto molto comune tra il volgo di Persia anche oggi dice: « Se un'uomo generoso diviene povero attaccati a lui, perché la branca s'inclina verso la terra quando è carica di frutti. Se un'uomo abietto si è arrichito fuggi lontano dalla sua presenza, perché le latrine quando sono piene molto più infettano”.

 

 

 quindi il Masci disse: «Gli Albanesi sono di natura generosi o poco curanti di cumulare ricchezze, con prontezza danno il loro a chi lo cerca, ma nel domandare sono anche facilissimi» (1). Tutte intente ai lavori caserecci le donzelle vedevansi a raro sortire dalle case, meno quando visitavano le Chiese, o dovevano attingere l'acqua alla fontana.

A lungo andare il linguaggio si alterò, per lo inevitabile Contatto vi s'intrusero vocaboli del dialetto indigeno, il bisogno fece nascere un'amalgama, da qualche eccezione in fuori nella promiscuità i latini uniformaronsi con essi, e crescendo di numero alcuni paesi furono caricati dalle regie imposte. Introdotta la tassa dei fuochi nel catasto del 1508 furonvi compresi parecchi dei paesi conosciuti coll'antica denominazione, i cui abitanti per la maggior parte erano Albanesi. Questi pochi diedero così il primo passo verso la cittadinanza locale; non più figli di una commiserevole adozione pari agli altri venivano considerati, tuttoché in eguali condizioni economiche non si tro­vassero. Ma i villaggi più ristretti vissero più lungo tempo segregati, in alcuni seguitarono ad abitare per lunghissimo altro tempo nelle catapecchie o nelle pagliare, non vennero gravati dai balzelli fiscali per assoluta man­canza di acquisita proprietà (2).

 

1) Masci Op cit.

2) Vedi le prescrizioni date negli anni 1641,1656,1659. (Gollez. delle Pramm. Tom. Vi pag. 299).

Un real dispaccio del 22 dicembre 1731 ordinò la rivisione dei fuochi fatta nel 1669; una Giunta formolo il regolamento da osservarsi nella numerazione stabilita pel di 23 marzo dell’anno 1732. Tra le altre istruzioni si legge questo: «In quanto ad alcuni Casali abitati da Schiavom, Greci, Albanesi, se ne descrivi con ogni diligenza l'effettivo nu­mero, poiché molti di essi abitano in case sotterranee, grotte e pagliaio che perciò si sappia e descrivi l’abitazione predetta annotando il modo come vivono, e si descrivano conforme tutti gli altri fuochi da cittadini del Regno colla distinzione che si ricerca, e se le loro mogli sono regnicole, ponendosi l'età, professione ed i beni che posseggono, facendosene del tutto breve, chiaro, e distinto notamente nel margine di ciascuna rivela”.  Collez. delle Pramm. Vol. IV  pag. 395