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(1536-1545) Con accrescersi il numero degli osservanti greci in Italia lo assolutismo intransigente dello episcopato latino se ne risellti ; sempre mai avverso fece sorgere in alcuni prelati il pio desiderio della uniformità di rito nelle rispettive diocesi. Un tale divisamento riusciva gradito alla corte papale, ma per vero non lo imponeva, le bolle emanate tendevano solo ad attirare i Greci alla disciplina, ed alla ubbidienza del romano Pontefice. Per giungere ciascuno allo intento proprio, Cioè i Latini a fare interdire il rito greco, gli Albanesi a conservar]lo, in manifeste intolleranze trascesero. Nel Veneto questi ultimi giunsero a ribattezzare per immersione quelli che loerano stati per aspersione, gli altri praticarono il contrario, e richiamando l'attenzione del Papa Leone decimo una bolla garentì la Chiesa greca, ordinando la sua indipendenza dai Vescovi latin1i (1521) (1), Quivi il clero greco fu eccezionalmente sostenuto dai Prelati orientali fattisene difensori, nelle altre provincie gli Albanesi volendo avvalersi della bolla istessa procuraronsi una guerra dichiarata dalle curie vescovili, e non poche volte la voce altissima dei Papi si alzò tuonante dal Vaticano per evitare più scandalosi conflitti. La graduale abolizione dei conventi basiliani di greca istituzione cornillciata dopo l'anno 1525, intorno ai quali molti Albanesi eransi collocati, aveva tolto loro quell'unico appoggio, essi però soli, senza l'usbergo di alcuno sostenevano alla meglio le avversità, e forse anche le persecuzioni, Oggi di fronte ad una lotta per la libertà della coscienza e del pensiero meglio può misurarsi l'oscurantismo di allora. Il Pontefice Paolo III nel confermare la precedente bolla del 1536, intese a calmare le perenni controversie, e poi altre due bolle emise (nel 1540 e nel 1545) tendenti a concordare le funzioni religiose nei paesi dove standovi e Greci e Latini nella stessa chiesa con differenti riti dovevasi officiare, Ottenne dal governo per i preti ammogliati la esenzione dei tributi dei pesi delle gabelle protraendone il benefizio alle mogli rispettanti lo stato vedovile. Queste concessioni lungi di troncare le vertenze suscitarono vieppiù le antipatie, non perchè desse erano gran cose, ma ritenevansi una tacita conferma del clero greco, Le quistioni dalle viste religiose in quelle di venale interesse degenerarono; dappoichè i Papassi amavano di estendere se lo fosse stato possibile i privilegi ottenuti, mentre i Vescovi a volta loro tutto tentavano per fare scomparire una eccezione sebbene giustificabile colla povertà. Le contese toccarono pure la cupidigia dei feudatari secolari, a lor volta in qualche paese vi posero mano, e così nelle gare di utile materiale la osservanza del rito confondevano. La concessione fatta ai Greci di Venezia dal Papa Leone X era sempre uno appoggio agli Albanesi per non riconoscere i Vescovi latini, però i Prelati dall'oriente portavansi allo spesso in Italia; a Benevento a Messina in Calabria impresero ad esercitarvi una franca giurisdizione, visitavano le Chiese greche, regolavano le funzioni, correggevano i costumi. Ciò servì a promuovere maggiori opposizioni e più frequenti reclami. Le querele furono sporte innanti alla congregazione dei Cardinali, la quale censurò i Greci di essersi avvaluti di una bolla che nel solo Veneto aveva vigore. D'allora in poi i Latini sostenendo la loro supremazia esasperaron gli odi antichi, immemori che gli Albanesi trovavansi in quella dura condizione per essere stati troppo devotamente cattolici, e troppo ossequenti alla volontà dei Papi di Roma, li accusavano di alcune peccadigie non a tutti dovute, e se le accuse loro non tolsero nulla certamente la desiderata istituzione delle diocesi greche ostacolarono, per due secoli circa quanti ne scorsero dallo arrivo loro in Italia fino alla ammissione di alcuni di essi nel collegio in Roma, di cui fra poco terremo parola, rimasero privi di aiuto, e d'insegnamento, con alla testa pochi preti ignoranti e smunti dai Baroni. Nello aprire del secolo XVI in alcuni eravi tanta oscurità letteraria che il Cardinale Sirleto visitando una Chiesa domandò il Minologio in cui si contengono gli Uffizi dei mesi dell'anno, e il Capo del Clero gli presentò tutt'altro libro (2). I diocesani latini se non ottennero la interdizione del rito greco, forti della bolla Romanus Pontifex emessa dal Papa Pio IV (1545) assoggettaronli alla loro giurisdizione ordinaria; al i pari del1e altre Chiese regolavano il culto, e la disciplina; rilasciavan le lettere dimissorie, senza delle quali i preti non potevano andare in Roma ad ordinarsi. Da quel momento tutti gli ulteriori tentativi della indipendenza ecclesiastica non ebbero alcun effetto. Questo temperamento disviò la carriera del clero greco, poco giovò alla istruzione di cui gli Albanesi avevano tanto bisogno molti paesi nel culto si latinizzarono.

 

(1) Rod. del rito greco in Ital. Lib, III, pag, 136.

(2) Zavar. Stor. dal Colleg. Corsino,

 

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 (1564-1567) Comunque la ottenebrazione oscurasse le menti pure collo andare degli anni cominciava lo adattamento nel nuovo ambiente in cui si trovavano, e rabbonacciandosi, lungi di essere più la causa di disturbi con i vicini, in qualche paese essi medesimi cooperavansi a reprimere i disordini dagli altri suscitati. Prova ne sia il seguente fatto. Gironzava per le Calabrie una gentaglia nomade, nata per ramingare, vivente di furti e di giunterie, della cui origine nulla si conosceva, e la vita n'è tuttavia un fenomeno bizzarro, uno arcano impenetrabile, apparisce in tanti siti diversi, senza che mai storia o geografia con sicurezza la patria e le vicende ne rivelasse. Le generazioni degli Zingari compariscono improvisate sulla terra, da per ogni dove semibarbare, identiche nelle forme e nei costumi, seguaci di tutte le religioni non professandone alcuna; senza sentimento politico, non modificabili nè pel variare del clima, nè per lo svolgere dei secoli, sempre poveri ed errabondi. Un orda di quella razza armata e numerosa alzò le suo tende in vicinanza di Castrovillari, nei dintorni impunemente saccheggiava. I naturali impresero a scacciarla, ma gli Zingari resistendo maggiori guasti e ladroneggi perpetravano. Alla fine gli Albanesi del prossimo villaggio di Percile, quegli stessi contro i quali eransi comminati tanti castighi per reprimerne i furti, temendo di compromettersi diedersela con i vicini, ed in marzo 1567 sostennero un conflitto in cui gli sciagurati girovaghi furono dissipati e rotti. I sinodi diocesani presero anche di mira quei ciurmadori, e adoperando la potestà ecclesiastica gradatamente li disfecero (1). Non abbiamo voluto trasandare questo fatto, malgrado fosse troppo singolo, perchè in particolare sollevi quelli di Percile dai trascorsi antichi, e in generale ne sia indizio che gli Albanesi rassegnandosi, dove più dove meno, cominciavano a nutrire affetto per una patria nuova. Dallo esempio dei buoni gli altri si rasserenavano; se dal carattere aspro ed irrequieto la generalità mal compresa non apprezzata fece talvolta suonare di sè trista nomea, non passò guari e si chiarì per tutti un'era di lumi, e di sapere.

 

(1) Pagano Cen. Stor. dell'Arcivescovato di Rossano pag. 24. -

 

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(1567-1571) I primi passi, bisogna pur dirlo, furono fatti per opera della sede romana, la quale non dimenticando la istruzione dai Papi tenuta come un obbligo religioso, istituiva in Roma un collegio apposito per allevare la greca gioventù, la quale apparando colle lettere, e colle scienze le verità religiose avesse fatto rivivere tra essi la fede ortodossa, e quello fu il primo agone degli studi albanesi.

Alle falde del monte Pincio, ove dominando i pesanti effluvi del Tevere si respira l'aura gentile dei sette colli, sorse la benefica istituzione dotata di cospicue rendite da potersi dire grandiosa nello scopo, proporzionata nei mezzi. Se utile riusciva per i Greci lo fu tanto più per gli Albanesi, che in Italia per la prima fiata la mente alla carriera dello scibile umano rivolgevano. Quella istituzione fondata da Gregorio XIII deve ritenersi come una delle più sublimi opere di uno spirito eminentemente benefico, essendo stato in essa il primo, il vero semenzaio donde uscirono Albanesì chiari per coltura e nome, stante che quando la ignavia dei governi non generalizzava la istruzione nei popoli da qualunque punto si vede spuntare un raggio di sapienza la storia sente l'obbligo di ammirarlo. Spettacolo bello ed ammirando era il vedere collocato tre secoli fa, nella grande sede latina la nuova fonte della istituzione greca. Là convenire da lontane contrade la gioventù, e di là uscirne addottrinati per andare da novelli apostoli a educare ed istruire i connazionali. In quelle sale si rinvenivano le sorgenti inesauste dell'antica letteratura rimaste come piramidi a memoria imperitura dell'estinte grandezze, fatta per elevare le idee, sublimizzare lo spirito, formare il cuore, creare insomma uomini patriotici laboriosi cittadini; quel linguaggio così efficace a trasmettere le lettere, la poesia, l'eloquenza, le dottrine scientifiche, le credenze religiose, gli usi i costumi, nel tutto assieme la storia della civiltà greco-latina.

Fu compresa nella dotazione del collegio, chiamato di Santo Attanasio, un'Abbadia delle Calabrie Melito, e concesso ai Greci quivi dimoranti di esservi gratuitamente ammessi, Del pari vi entrarono quattro Albanesi, ed altrettanti dei basiliani rimasti nel napolitano, dove trovavansi ancora gli Abbati commendatari s'impose loro l'obbligo di sostenervi uno alunno a proprie spese.

 

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(1577-1623) Ma l'opera della propaganda letteraria era lenta, richiedeva il concorso delle generazioni per insinuarsi fin nei remoti paesi. Tranne i pochi, gli altri contentavansi di passarla nell'ozio a canto al proprio focolaio, tutto al più seguire un prete pedagogo, che nei villaggi conosceva tanto quanto poteva ufficiare. I Diocesani per attirarli a quella unità desiderata, e per emendare a tanto languore nei loro concili sinodali richiamavanli spesso alla osservanza delle bolle pontificie emanate per lo accordo dei due riti,  e premurosi talvolta v'interponevano i preti già istituiti nel collegio romano rientrati nei patri lari (1). Il Papa Clemente VIII nel 1595 fece delle istruzioni pei Greci, ma le regole così dette Clementine furono adottate dai soli Albanesi rincantucciati ne' monti candaviani, e tra i popoli slavi dello Impero di Austria; nelle provincie napolitane prima del 1706 non se ne tenne conto; le due Chiese continuarono ad animare le rivalità e le dispute all'uso bizantino. Il clero albanese ne risentiva di più, conciossiachè mancante dei Prelati greci non trovava appoggio nè difesa. I cherici dovevano conferirsi in Roma per ungersi del crisma sacerdotale; ciò non ostante lo attaccamento al proprio rito faceva loro imprendere il lungo viaggio per la città eterna in pellegrinaggio, picchiando dall'uno all'altro monastero in cerca di uno asilo; sfidavano i disagi e i pericoli dei luoghi mal sicuri, scarsi o privi affatto di strade rotabili.

 

(1) Vedi il sinodo diocesano tenuto da Monsignor Adamo Lodovico Vescovo di Cassano nel 17 novembre 1591, e gli altri posteriori.

 

Dovunque passavano la pubblica attenzione li fissava per la barba lunga, pel camelafio e per la chioma scrimata cadenti sugli omeri (1).

Lo amore pietoso e costante ai propri costumi compunse l'animo del Papa Gregorio XIII e in un tal qual modo cercò di spianare loro la via del vaticano, autorizzandoli a poter esercitare de' negozi, onde procacciarsi una discreta comodità (2). Un'altro tenuo soccorso in vero, che solo dimostra a qual grado il bisogno fosse giunto, non perdendosi di vista un popolo sperperato fuori dei luoghi natii, di sovvente delegavansi dei Prelati greci per osservare la tenuta delle chiese, la regolarità delle sacre funzioni, fornire lumi e schiarimenti, ed anche ordinare i preti. Nel 1581 nel pontificato del medesimo Gregorio XIII e poi sotto quello di Paolo V nel 1614 e nel 1644. Gabriele metropolitano Esarca della Macedonia, Neofito Namontino Vescovo di Metone, e qualche altro nel Palazzo Adriano e nella Piana conferirono gli ordini ai cherici di Sicilia (3). Ma deve pur dirsi, quei provvedimenti poco efficaci a rialzare il clero albanese peggiori sconci produssero. Avvenne che un prete intitolandosi Arcivescovo di Corinto imprese le ordinazioni da sè in diversi paesi delle Puglie, senza essere delegato dal Sommo Pontefice in manifesta opposizione alla supremazia romana ( 1622).

Coteste visitazioni provavano alla evidenza la necessità delle diocesi greche, e rianimavano le speranze non mai spente di ottenerle. Lungi dal favorirle un altro Sinodo diocesano tenuto in Cassano da Monsignor Paolo Palumbo nel 1623 ripeteva le stesse censure del precedente sulla inosservanza delle ritualità, e colla forza ricavata dalle Bolle minacciava di sospensione a divinis coloro che ordinati si fossero senza le lettere dimissorie, altri moniti faceva per contenere fermi gli Albanesi della Calabria citra alla casta latina. Tanta bramosia cresceva anchè perchè il culto orientale traeva già uno appoggio nel cominciato studio delle lettere greche, e non più rozzi come nei primi anni man mano s'ingentilivano (4).

A lungo andare i Prelati se non in tutto in gran parte riuscirono al desiderato intento; come alcuni paesi eransi già piegati alle curie latine, essi carezzando sempre più il passaggio dei preti dal greco al latino rito, ed avversando le ordinazioni del clero greco dalla vigorosa influenza teocratica fecero sì che al principiare del decimottavo secolo quarantatre paesi, circa due terzi della totalità, apostatarono ed ora officiano in latino.

 

(1) "Extremement bruns, la barbe que portent leurs prètres et vartabieds (dice Borè parlando degli Armeni) est remarquable par sa couleur noir comme le jaspe, et elle tombe, a la maniere des Persans, sur la poitrine. Rien n'est plus propre a inspirer au peuple le respect et la veneration pour ses chefs spirituels, que l'air de dignite dee prètres armeniens, et la gravitè avec la quelle ils officiant dans les cerimonies religieuses "(Hist de l'Arm. p.. 122). Facciamo questo confronto perchè si attaglia bene ai preti Albanesi.

(2) Lettera di Gregorio XIII al Nunzio Apostolico di Napoli da'Tesorieri generali Monsignor Lodovico Taverna e Monsignor Buonfigliuolo dei 29 maggio 1579 e dei 17 febbraio 1584.

(3) Sav. Matto Aringa pag, 43.

(4) P. Fiore Calab.Illustr. Tom. I. pag.83.