Giovanni
CAVA
Considerazioni
generali su alcune comunità albanesi di Calabria Citra
attraverso le capitolazioni.
(Rivista
"ZJARRI" - Anno IV - N. 1 - Gennaio 1972)
In
un documento inserito tra gli atti della platea dei beni del monastero di S.
Adriano, redatta tra il 1756 ed il 1761, si legge che il monastero possedeva da
tempo immemorabile il vasto territorio feudale di pertinenza e che « nello anno
1470 capitorno in provincia di Calabria citra dalla Grecia gli Albanesi e molti
di essi volsero situarsi nel predetto territorio e convennero con
l'Archimandrita e monaci di quel tempo a poter edificare case e pagliari per le
abitazioni e altresi del commodo del bestiame avere la campagna, siccome in
parte segui, e costrussero tre casali nomati S. Demetrio, Macchia dell'orto e S.
Cosmo, per il di cui effetto sotto li 3 novembre dell'anno 1471 formarono tra
essi loro le capitolazioni per mano dell'egr. notaro Andrea De Angelis de
Terranova ….. e fra gli altri restò convenuto che detto territorio
archimandritale sia una parte soggetta di pagare la decima sopra il frutto delle
vittovaglie ed il di più in terraggio e ne segui dell'uno e dell'altro la
separazione per mezzo dei rispettivi divisori » ( 1 ).
Gli
Albanesi, dei quali si tratta, sono quelli che si stanziarono nell'ambito del
territorio feudale della badia basiliana di S. Adriano, in terra di Acri, e con
il beneplacito dell'abate Paolo, « una cum monacis », stabilirono le loro
dimore nel casale di S. Demetrio, cosi denominato dal Santo protettore,
costruito ed abitato da famiglie di villici, che avevano avuto ed avevano
rapporti di lavoro alle dipendenze della badia, nel casale di Macchia, altro
villaggio a breve distanza, e nel casale di S. Cosmo, sorto, per le stesse
ragioni, nelle adiacenze di un vecchio eremo basiliano, cosi denominato, una
volta autonomo e, successivamente, non più abitato dai monaci, aggregato alla
badia di S. Adriano, sul quale, però, esercitava la giurisdizione criminale,
unita al corpo feudale di Acri, il principe di Bisognano, barone di Acri (2).
Contemporaneamente
un altro nucleo di Albanesi s'insediò nel casale di Vaccarizzo, pertinenza del
vecchio monastero di S. Cosmo, la cui toponomastica derivò dal fatto che il
villaggio era sorto in territorio, allora adibito a pascolo, dove sostavano di
solito armenti ed animali bovini del barone di Acri, il quale vi esercitava la
giurisdizione civile e criminale e pagava un tributo annuo di 350 tomoli di
grano, ridotto in seguito a transazione a 250 tomoli, al monastero di S.
Adriano, in corrispettivo della concessione (3).
Un
altro nucleo si stabili nel casale di S. Giorgio, che era sotto la giurisdizione
mista dell'abate del monastero basiliano del Patirion e del barone di Acri (4),
ed un altro nucleo nel casale di S. Sofia, « ab indigenis italis constructum »,
sotto la giurisdizione del principe di Bisignano e del suffeudatario vescovo
della diocesi (5).
Come
è noto dalle numerose monografie sull'argomento, le migrazioni degli albanesi,
che approdarono alle coste dell'Italia meridionale, in seguito alla morte
dello Skanderbeg e alla caduta dell'Albania in mano dei Turchi, e si posero
sotto la protezione e giurisdizione dei locali feudatari, laici ecclesiastici,
avvennero in gruppi ed in tempi successivi. Così altri albanesi si insediarono
nel casale di Lungro, abitato dalle maestranze addette alla miniera del sale,
casale di pertinenza della badia basiliana di S. Maria delle Fonti, altri in
Acquaformosa, dipendenza della badia cistercense di S. Leone, altri in Firmo,
pertinenza dei Domenicani di Altomonte, sotto la giurisdizione del Sanseverino
di Bisignano (6); altri, ancora, si stabilirono in territorio di
pertinenza della badia basiliana di S. Basilio Craterete, soppressa nel 1468 ed
aggregata alla sede vescovile di Cassano (7), ed altri in Frassineto,
pertinenza dello stesso vescovado (8); altri nel casale di S. Benedetto
Ullano, pertinenza della badia benedettina (9).
A
parte la questione cronologica delle successive fasi migratorie, ampiamente
trattata dalle molteplici monografie, facilmente reperibili, e ammessi i
concordi motivi, che spinsero i profughi a cercare ospitalità nell'Italia
meridionale, diverse sono le congetture relative ai motivi della ubicazione e
dell'insediamento delle comunità in luoghi tra essi discontinui e decentrati,
quasi sempre, però, in casali
preesistenti, costruiti ed abitati da elementi indigeni
ed in quel tempo in parte spopolati.
Abbandonate
le coste, allora infestate dalla malaria ed insicure per le possibili
incursioni, gli Albanesi si inoltrarono nell'interno continentale e si
arroccarono, generalmente, in luoghi montagnosi, spesso impervi e difficili, ma
dove trovarono spazio di vita.
Sparsi
in gruppi separati nel territorio abbastanza vasto dell'estremo meridione
d'Italia, in condizioni di grave disagio per l'inopia e l'amarezza dell'esilio,
compatibilmente con le possibilità zonali e le difficoltà e ristrettezze dei
tempi, vennero accolti dai feudatari, secondo gli usi e le consuetudini vigenti,
in qualità di «affidati » ed in condizioni di vassallaggio.
Edificarono
le loro capanne o i loro pagliari nelle località, assegnate a beneplacito del
Signore, e, come emerge dalle capitolazioni, ottennero concessioni di terre da
coltivare, ad uso di pascoli e di maggesi, secondo il sistema della decima,o del
terratico.
Provenendo
essi da una regione economicamente altrettanto depressa o addirittura, più
povera, montagnosa ed impervia, dove la fonte unica di economia era costituita
dall'agricoltura, e dalla pastorizia, essendo, perciò, essi stessi, per la gran
parte, agricoltori e pastori, dedicarono tutta la loro attività e le loro cure
alla coltivazione dei campi e all’allevamento del bestiame, attività
economiche prevalenti o esclusive anche nell'Italia meridionale, se si
eccettuano le scarse attività artigianali di uso e di necessità, praticate in
forma estensiva, che per mancanza di adeguate concimazioni e di attrezzature
meccaniche, richiedevano molta fatica e molta mano d'opera bracciantile.
Cosi,
mentre di Albanesi si avvantaggiarono delle concessioni di favore, i feudatari
concessionari si avvantaggiarono delle loro prestazioni operaie, per una più
efficiente lavorazione delle terre e per il conseguimento di un incremento di
produttività e di utile.
Dalle
capitolazioni e dai documenti plateali si apprende che il territorio feudale era
generalmente diviso in mansi decimali ed a terratico (10),
prevalentemente adibiti alla maggesazione per la semina dei cereali, le cui
specie variavano in dipendenza della particolare feracità delle zone ed anche
delle rotazioni; e che costituivano la base prima dell'alimentazione, e a
pascoli, che con l'ampiezza della superficie dovevano sopperire alla scarsezza o
mancanza di foraggere, appositamente coltivate, per assicurare la sussistenza
del bestiame, utile per l'impiego ai lavori e per la produzione del latte, della
carne, della lana ed indispensabile anche alla vegetazione per il letame, che
costituiva il solo concime naturale.
Dissodarono
terreni impervi, aprirono nuove terre, boscose e cespugliose, alla cultura,
coltivarono zone abbandonate e dissestate, impiantarono vigneti ed oliveti per
le balze collinose e col passare del tempo migliorarono, con le condizioni dei
luoghi, le loro stesse condizioni di vita.
«
Chi vuole farsi una idea vera dello stato degli Albanesi nel tempo della loro
venuta e dopo, più che da quel poco che troviamo scritto nelle storie, deve
rilevarlo dai documenti ufficiali autentici, che rimangono, e specialmente dalle
capitolazioni fatte con Baroni e Chiese, le quali costituivano, diremmo, il loro
diritto pubblico d'allora, e a noi ora rivelano i loro bisogni e il loro stato
di civiltà. .. (11); cosi scriveva il Tocci in « Memorie storico-legali
per alcuni comuni albanesi », in occasione della controversia per lo
scioglimento di promiscuità demaniale con il comune di Acri, in seguito
all'emanazione delle leggi eversive dei feudi.
Da
allora molto si è scritto sulle comunità albanesi, per cui la storiografia
sull'argomento è ricca e comprende, ormai, numerose ed anche ottime monografie,
ma i documenti autentici, oltre le capitolazioni, le platee dei corpi feudali
ricognitive dei beni e dei diritti, i libri di censo e di introito,
costituiscono sempre le fonti realmente genuine, dalle quali si possono
continuare ad attingere notizie sempre interessanti per rilevare, non solamente
i rapporti di concessioni e di obblighi corrispettivi, posti minuziosamente
sull'arido piano contrattuale, ma anche usi, consuetudini, aspetti e condizioni
di vita.
Il
più antico documento relativo alla presenza di comunità albanesi in provincia
di Calabria citra è costituito dallo strumento notarile del 3 novembre 1471,
del notaro Andrea de Angelis di Terranova, tra l'abate di S. Adriano Paolo Greco
e la comunità degli Albanesi di S. Demetrio, redatto dopo poco tempo dal loro
insediamento nel territorio badiale, per stabilire e specificare, in forma
ufficiale e pubblica, i rapporti, le concessioni e gli obblighi corrispettivi
tra le parti.
Quel
documento può considerarsi, perciò, l'atto fondamentale, costitutivo della
comunità e, nello stesso tempo, la fonte delle norme regolative dei rapporti
tra gli Albanesi e il monastero, al quale, infatti, fanno capo gli atti
successivi della platea del 1477, redatta dal R. Commissario D. Nicolò Pisani
di Nola, quelli della platea di Sebastiano La Valle del 1544 e quelli della
platea del 1756-1761, per notaro Rende, per la ricognizione degli usi,
consuetudini e diritti delle parti.
Nonostante
le maggiori restrizioni e i più particolareggiati obblighi aggiunti,
successivamente, nel 1597, dall'abate commendatario Don Indaco Siscara, che, in
conformità di precedente bolla pontificia del papa Gregorio XIII, esegui « la
dismembrazione da tal badia di alcuni corpi », assegnando alla mensa monastica
il comprensorio di « Caliano », « per lo mantenimento de’ Religiosi » (12),
le concessioni sancite dalle capitolazioni alla comunità di S. Demetrio restano
le più favorevoli, le più generose e liberali, anche per la gratuità di
alcune di esse, espressive del sentimento caritativo dei basiliani, rispetto a
quelle di altri feudatari elargite alle altre comunità, quasi sempre in forma
di atto sovrano ed appesantite da diverse costrizioni e diverse prestazioni
anche personali, corrispettive (13).
(14)
“ Item promettono ditti Albanesi alla predetta corte episcopale una giornata
per
pagliaro
anno quolibet o vero grana 5 per giornata... ”; altrove: “ item si ordina et
comanda che detti Albanesi siano tenuti portare legname che fosse bisogno per lo
molino de la corte... et conciare lo acquaro et portare la petra quanto volte
bisognasse per bisogno di detto molino a loro fatiche et spese; et similiter
siano tenuti detti Albanesi portare legname per lo bisogno dello battenderi
quando la corte ce lo facesse”; e ancora: “si ordina et comanda che 'detti
Albanesi siano tenuti inchiudere tre salme di paglia di grano et una di orzo per
ciascheduno pagliaro et quella tenere per uso de detta corte anno quolibet
".
(15)
“Item s'ordina et comanda che niuno Albanese habitante in detto casale possa
vendere vittovaglie, ghiande, bestiame ad altre persone che a quelle de lo
casale senza licentia espressa di detta corte... ". Ed in fine un divieto
precauzionale: “vole et comanda detto rev. Abate che nessuno Albanese
habitante in detto casale habia da passare per nanzi lo porcile d'esso rev.
Abate per che ce sono certi cani malvasi et hominari. Et si pur loro ce
volessero passare et patissero alcuno danno in persone loro o, de bestiame, loro
danno ”.
(16)
V. nota 5 .dai “capituli di gratie”: “ ...Item supplicano detti Albanesi
V.R. S: voglia ordinare a quelli che esiggonno la ragione della decima delli
animali che quando la numerano lo mese di aprile e di maggio intanto se li
habbiano da pigliare ne loro potere, e non permetta s'abbiano da tenere sino a
settembre et ottobre a loro dispise... Item atteso quando veneno li predetti
contare detto bestiame, e pigliare detta decima, contano, seu numerano intro
l'animali, che si hanno a decimare, le matri contra ogni duviri, et a nessuna
parte de lo mundo se fa, voglia ordinare V.. R. S. che solum habbiano d'havere
detti Esattori solum la decima de' capretti et agnelli di quell'anno (Placet)...
Item, supplicano V. S. R. si degni raccomandare al Vicario e Procuratori che
quando vanni alli detti casali vogliano portare con loro tre o quattro
persone, che vene volta ne portano tanti che non se possono nutricare
(Placet)... Dalle capitolazioni del Principe: “ Item, supplicano... che
possano godere tutti i privilegi che godono i naturali di Bisignano (Placet)...
Item, che i bestiami loro godono tutto quello, che godono i bestiami dei
cittadini di Bisignano (Placet)...
Item
che faccia pagare loro di pigione come pagano i cittadini di Bisignano
(Placet)... ecc. ecc.
(17)
Il principato di Bisignano fu assegnato dal re Ferrante d'Aragona a Luca
Sanseverino. Il principe Pietro Antonio fu capitano di Carlo V; sposò Irene o
Herina Castrista
pronipote di Skanderbeg, mentre il fratello di questa, Achille Castriota,
sposò nel 1561 Isabella Sanseverino, figlia di Francesco,. principe di Salerno.
V.
nota 6: “Item supplicano detti frati chi V. S. debbea fare franchi detti
Albanesi de Firmo de lo terreno de la Saracena, et gaudere tutte le franchigge
che godono l'Albanesi de l'Ungro”.
(18)
“L'Abate ogni anno percepiva 3 carlini per ciascuna casa o pagliara, ridotti
in seguito ad un carlino da pagare altresì alla ducale corte di Corigliano.
Ogni anno da chi facesse massaria esigeva una paricchiata, nonché la decima.
Esercitava il ius prohibendi, il ius, dohanae, il ius pali, il ius carcerandi".
I vassalli non potevano alienare i loro beni se non tra loro, previo assenso
dell'Abate. (v. Gradilone " op. cit.).
(19)
Gradilone -op. cit.
(20)
“Siano tenuti detti vassalli portare e condurre saitta e mola ed altre cose
necessarie per il molino di detta Badia a loro spese dalla montagna alla Badia
".
“Debbono
chiudere la vigna di detta Badia, quante volte sarà bisogno, e ad ogni
richiesta de suoi fattori, debbono di più dare una giornata per fuoco, da
servire in detta vigna" ecc; ecc .
Nelle
stesse capitolazioni: “che possano tenere le loro possessioni, vigne, gelsi,
ed altro ed aumentarli, dando il solito e consueto rendito alla detta Ecclesia”.
“Se
di nuovo alcuno venise ad abitare in detto casale detto Rev.mo Commendatario
possa concedergli luogo da farsi casa, con consenso anche dei cittadini”.
“che
detta Badia e suoi Procuratori non possano senza la volontà di detti Albanesi
accettare vassalli Italiani nel casale predetto, nè Albanesi, e che gli uomini
e famiglie che staranno in detto territorio non debbono dannificare le
popolazioni dell'Albanesi e che non vadano girando la notte per lo casale con la
scusa di guardare, ma che la guardia sia commessa al Camerlingo del medesimo
casale” ecc. ecc. -Tavolaro -origine e sviluppo delle comunità Albanesi in
Calabria.
(21)
F. Cassiani -Spezzano Albanese nella tradizione e nella storia.
(22)
Nel 1545 gli Albanesi della Calabria citra erano 5727 (A.S.N. sez. ammin. fuochi
- voI. lV -1° num. in Gradilone -op. cit.)
(23)
Come ad es. la fiera di S. B4rtolomeo nelle adiacenze della badia basiliana di
S. Adriano; la fiera di S. Antonio nell'omonima contrada, vicino all'attuale
stazione di Spezzano, ecc.
(24)
“Diversi Albanesi delli antidetti tre paesi (hanno) edificato e costruiti
molini e battennieri” (v. platea di S. Adriano), fu accordato loro il
permesso, “col peso annuale” di corrispondere e pagare alla badia in ogni
mese di agosto docati cinque a molino enfiteutico".
(25)
V. ad es. dalle capitolazion.i degli Albanesi di S. Benedetto: “I gelsi della
badia
(26)
Così, per es. per quelli di Macchia e di S. Demetrio si ebbero rispettivamente
nel
(27)
P. Scura -Gli Albanesi in Italia (saggi e riviste); A. Scura -Gli Albanesi in
Italia e i loro canti tradizionali; E. Tavolaro -op. cit.; Dorsa -Su
gli Albanesi: ricerche e