MILANO METROPOLI

 

LE CALABRIE

di ANGELO GACCIONE

Skiperia, l'attuale Albania, ha avuto dalla storia la sua massiccia dose di dominazioni. I romani l'annessero alla loro provincia dell'Illiricum, nel medioevo ritornò sotto il dominio bizantino nel corso del XV secolo fu sottomessa dai Turchi che mantennero la loro egemonia per ben cinque secoli. La valorosa resistenza di quello che gli albanesi considerano il loro eroe nazionale, Skanderbeg, non bastò, e comunità intere di esuli furono costretti a lasciare la patria e trovare riparo soprattutto in Sicilia ed in Calabria. Per restare alla Calabria. nella sola area cosentina la presenza di comuni di lingua e cultura arbereshe è notevole. Gli albanesi di Calabria occupano un territorio significativo dal punto di vista dell'estensione complessiva, ed il loro numero può considerarsi ragguardevole.

Centri come Spezzano Albanese, Acquaformosa, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, Vaccarizzo, Lungro, per citarne alcuni, non hanno solo un'importanza storica, ma sono una presenza viva e importante della provincia di Cosenza. Da sempre ben integrati nel contesto territoriale, che hanno contribuito a creare, gli albanesi di Calabria pur mantenendo la loro lingua e (qualche volta) i loro costumi, si sono sentiti italiani a tutti gli effetti, tant'è vero che c'è stata e c'è una "questione meridionale", ma non c'è una "questione albanese".

Lo stesso libro di Giusepe Martino Il tenente Generale. Un albanese di Calabria nel Risorgimento (pagine 160 lire 25.000) di cui le edizioni di Cultura Calabrese di Lamezia Terme hanno appena riproposto la seconda edizione, può essere letto come un affresco ottocentesco di una qualsiasi famiglia di galantuomini calabresi insofferenti al dominio Borbonico al quale si ribellano, cosi come faranno i figli di altre famiglie borghesi della Calabria del tempo. E non è un caso che la storia del protagonista, Pier Domenico Damis, il tenete generale di cui si parla nel romanzo - saggio di Martino, sia simile alla parabola di altri giovani risorgimentali carichi di ideali di indipendenza, di unità e di libertà, che complottavano contro la restaurazione borbonica in ogni angolo della provincia italiana.

Damis ed i suoi compagni patrioti, in linea con lo spirito dell'unità nazionale dominante nei rivoluzionari del 1848, non posero ne un problema di federalismo, come faranno ad esempio Ferrari, Pisacane e gli altri  rivoluzionari dl tendenze proudhoniane o il lombardo Cattaneo, nè parlarono mai di specificità arbereshe o calabrese, sentendosi a tutti gli effetti patrioti di quell'Italia nuova che stavano costruendo con la loro lotta e con il loro sangue. Non dimentichiamoci che il Damis concluse la sua carriera di garibaldino nell'esercito del nuovo stato unitario e savoiardo, come esponente di quella borghesia vincitrice in ascesa, addirittura nel  Parlamento come deputato dove fu eletto per ben tre legislature. Il Collegio stesso di San Demetrio Corone, quella che fu battezzata "fucina del diavolo", dove il Damis albanese di Lungro aveva studiato e dove si era formato culturalmente e ideologicamente, non era frequentato solo da albanesi, ma vi confluivano i figli irrequieti e sediziosi di tutta quella borghesia calabrese, destinati a diventare leadership intellettuale rivoluzionaria e futura classe dirigente. Basti per tutti il giovane rivoluzionario acrese Gian Battista Falcone, morto a Sapri con Pisacane.

Pier Domenico Damis ed i suoi compagni di avventura erano certamente intrisi di quel l'idealismo romantico proprio dell'Ottocento, come del testo dimostra  l'episodio del suo arresto. Davanti alla rabbia dei concittadini di Lungro inferociti che gridano ai gendarmi paralizzati dalla paura: "Liberatelo o vi ammazziamo tutti quanti siete", egli con animo stoico blocca quel principio di insurrezione popolare e, ammanettato, si lascia condurre verso la deportazione a Procida. Nato nel  1824 Damis muore nel 1904 all'età di ottant'anni dopo una lunga vita vissuta da protagonista e da uomo di potere, in una Calabria marginalizzata e piegata dall'analfabetismo.

Martino ne segue passo passo le tappe salienti e ne ricostruisce anche il ritratto psicologico, sorreggendo la narrazione di un nutrito carteggio epistolare. Ne emerge un personaggio complesso attaccato tenacemente alla famiglia, che viene prima di ogni altra cosa, un vero e proprio "mito", come lo defnisce l'innamorata Adelina. Sovrastato dalla personalità fortissima della madre, è tuttavia inadeguato a costruirsi una famiglia tutta sua, per una sorta di accidia o pudore dei sentimenti. E seppure non del tutto indifferente alle delicate parole che Adelina gli scrive il 12 settembre 1889, egli non coronerà, mai con un matrimonio il sogno della donna, neppure quando due anni dopo Adelina resterà vedova. Martino ci mostra la "compiaciuta malinconia che accompagna il declino della sua epoca, e delle illusioni" come certi eroi sopravvissuti a se stessi.

Il tenente generale di Giuseppe Martino è tante cose insieme: indagine storica seppure romanzata, saggio dagli inevitabili risvolti politici, spaccato socio -antropologico di quella Calabria borghese e giacobina che diede il suo contributo al risorgimento, ma che ne ebbe anche indiscutibili vantaggi. Affresco di una comunità, quella calabro -albanese di Lungro con le uue utopie rivoluzionarie.

Ma anche con i suoi rigidi rapporti matriarcali, le sue soffocanti gabbie salariali, le sue pulsioni poetiche, le sue atmosfere, i suoi dialoghi, i suoi scandali psicologici, la resa vivida dei personaggi, la sonorità vibrante dei paesaggi, il conflitto sentimentale dei protagonisti. Romanzo di riflessione e di sentimenti, questo libro ci rivela uno scrittore maturo e dalla buona capacità narrativa.