“Lungro e Le Donne del Risorgimento”

di Anna Stratigò

Quando si parla di guerra  si parla sempre di uomini.

Eppure c’è un risorgimento invisibile ed è quello fatto dalle donne.

Specie nel secolo scorso il nome di una donna perbene, come la sua persona, doveva restare chiuso fra le mura domestiche e  la donna migliore era quella di cui meno si parlava fuori della casa, sia per biasimarla che per lodarla .

E’ importante  individuare quindi, all’interno di uno spazio storico come  il Risorgimento, connotato fortemente dall’immaginario maschile,la figura femminile che ha contribuito ad indicare, sostenere e realizzare il progetto indipendentista e unitario italiano.

Bisogna fare prima di tutto una premessa.

La donna  fino all’inizio dell’800 in Italia ebbe un ruolo marginale nella resistenza contro il dominatore austriaco a  differenza di quanto accadde in molti altri paesi europei.

Quì rimase emarginata dal mondo che la circondava e non impegnata in alcuna lotta per l’affermazione dei suoi diritti appunto fino all'ultimo trentennio del 1800.

In Francia il popolo femminile era già nel 700 impegnato accanto agli uomini nella lotta contro la tirannide per la difesa della libertà e dell'uguaglianza; nel corso del secolo, non solo in terra Francese ma anche in America e nei paesi nordici, nacquero i primi movimenti femministi.

 In Italia, invece, le donne rimasero chiuse nel loro piccolo mondo, fosse esso costituito dalle mura domestiche o da qualche circolo culturale.

 Anche le donne appartenenti ai ceti più alti della società, se erano impegnate socialmente, operavano solo nel campo della beneficienza.

 Tutto ciò era dovuto essenzialmente a due fattori: l'Italia era un paese molto arretrato che considerava normale che la donna si occupasse solo della casa.

 Inoltre, contribuì il fatto che nel nostro paese non fosse mai esistita una vera democrazia e quindi le donne, di fatto lontane dalla società e dalla politica, non vollero nè pensarono di lottare per conquistare un qualcosa che non avevano mai sperimentato e conoscevano solo vagamente.

 Ed è quindi nell’800 che cominciano a farsi sentire anche in Italia e ad occupare un posto determinante nelle lotte pagando anche con la vita.

 Cataloghi, films, libri letti dalle nostre bisnonne  a scopo didattico o di puro intrattenimento presentano spesso una  donna “virile” che irrompe nella scena dei conflitti politici e militari, e magari  in panni maschili.

 Infatti, all’uomo eroe,  grande statista, padre della patria, genio letterario, artistico o scientifico,  che, perseguitato, dagli governi preunitari, dopo l’Unità trova spazio e onori ai vertici delle istituzioni nazionali, si contrappongono le figure femminili “illustri” che creano note dissonanti rispetto alla rappresentazione codificata della femminilità.

 Da  una  parte  norme  e  istituzioni  che  escludono le donne  dall’esercizio delle professioni, dalla vita pubblica,  dalla dimensione politica,  e dall’altra  storie di donne che in quegli spazi erano entrate sfidando   i divieti e   i costumi.

Comunque la partecipazione femminile al Risorgimento non venne mai esaltata ed i pochi che ne hanno parlato ricordano spesso soltanto donne come Anita Garibaldi, Maria Drago, Teresa Confalonieri per il loro stretto grado di parentela con grandi patrioti italiani.

La dimensione femminile quindi della prima metà dell’800 era questa.

Le donne quindi vivevano in una situazione di inferiorità e i loro sforzi per la patria erano ripagati solo con la protezione della quale gli uomini credevano che queste avessero bisogno.

Le donne erano relegate all’ambito familiare con un’istruzione mirata solo alla loro formazione come mogli e madri e le uniche donne che potevano avere una certa importanza erano quelle appartenenti all’élite politica e culturale che si distingueva per gesta eroiche, nelle arti o nelle scienze.

Oltretutto dopo la guerra, sancita la parità formale dei diritti uomo-donna non si ritenne opportuno continuare a trattare in sede separata delle donne illustri e furono  cancellate dalla memoria collettiva la leccese Antonietta De Pace, Enrichetta Di Lorenzo,  compagna di Carlo Pisacane e patriota  militante, e tante altre.

Eppure 15 donne risultano essere state uccise in quella terribile giornata del ‘48 a Napoli ma non ve n’è nessuna tra i feriti. In realtà la fonte da cui è ricavato il numero di feriti si riferisce esclusivamente ad ospedali maschili – la Trinità e i Pellegrini – che non accoglievano donne (le quali venivano portate, se ferite, agli Incurabili)3.

Né troveremo tracce delle donne del passato nelle memorie e rappresentazioni ufficiali degli apparati istituzionali o accademici, perché le donne erano escluse. Le norme giuridiche e culturali imponevano che, anche se forti e influenti, restassero celate dietro il soggetto maschile che le rappresentava sulla scena pubblica.

Ma le incontriamo però nella memoria dei familiari e di tutti coloro che le hanno conosciute e spesso restano nella tradizione delle comunità come sono rimaste le donne di Lungro.

Se pensiamo che al museo di Kruja in Albania quello che mi ha colpito di più e credo che colpisce tutti nel vedere la rappresentazione grafica della battaglia di  Skenderbeg contro i turchi è la numerosa presenza delle donne  che testimonia quanto possono essere forti le donne arbereshe.

Il nostro intento questa sera è quello di ricordare  alcune donne Lungresi  che hanno fatto la storia del Risorgimento con la speranza che da oggi altri di voi abbiano altre notizie magari da aggiungere alle nostre oppure anche per  conoscere eventualmente altre figure femminili che hanno partecipato anche in modo minore alle vicende.

All’ingresso c’è il modello di partecipazione che ognuno di voi può ritirare se è interessato a darci una mano per  questo lavoro e che può compilare anche in un secondo momento in quanto troverà nel foglio l’indirizzo di posta elettronica.

I ritratti di queste donne, dei i loro volti,  i giudizi e le descrizioni dei tratti del carattere, i rapporti instaurati con altre donne e uomini, come hanno vissuto  i rapporti con i loro familiari, sono notizie fondamentali per completare questo lavoro.

Il libro “Parliamo di Lungro”, del 1963 è stato lo strumento fondamentale per trovare notizie di queste patriote .

Il libro è Opera del “Comitato del Risorgimento” costituito il 2 Ottobre 1960 per il centenario dell’unità d’Italia e presieduto da Angelo Stratigò, segretario Vittorio Tufo che saluto affettuosamente, era composto di 18 membri in rappresentanza di tutto il popolo Lungrese.

Tornando alle donne, Matilde Mantile, Lucia Irianni, Maria Cucci, Cintia Mattinò si dedicarono energicamente alla questione della lotta al dominatore straniero e iniziamo da Matilde Mantile.

    

MATILDE MANTILE

(1799-1870)

 

 Nobildonna napoletana nata  a Napoli nel 1799 ,venne a Lungro, come risulta da un documento di famiglia, nel 1813 per sposare D. Angelo Stratigò, magistrato, padre del poeta Vincenzo Stratigò.

Aspetto austero, occhi neri, colta, è una donna veramente intrepida che ebbe la sventura di essere la  madre di Vincenzo Stratigò, e che sopportò con piena rassegnazione le persecuzioni borboniche contro il marito Angelo il figlio Vincenzo.

 Come gli altri figli di famiglie cospicue all’età di 12 anni inizia gli studi nel collegio di S.Adriano a San Demetrio Corone.In questa scuola stringe forte amicizia con Gerolamo de Rada e con queste idee parte per Napoli per studiare giurisprudenza.

 Ma torna a Cosenza per i moti del 44 e poi partecipa nel 48 ai moti napoletani e così viene rimpatriato col divieto di proseguire gli studi.Scrive  in una autobiografia da poco ritrovata:”Per aver fatto la campagna del 48 col grado di luogotenente nell’esercito del generale Ribotti  fui latitante fino al 52”.

E’questo il periodo della prima latitanza.

Il padre Angelo , giudice a Tiriolo,marito della Mantile fu inviato a causa del figlio ribelle  per ordine superiore  a Muro Lucano dove infieriva il colera e morì 5 giorni dopo a soli cinquant’anni.

 A questo punto Vincenzo scrisse ”Juria  sanguinis nullo juro civili derimi possunt” e cioè i diritti di sangue non possono essere sopraffatti dai diritti civili.

Ed ecco la disperazione della madre ormai vedova con quattro figli (5 erano già morti) di cui Rosina e tutti  e tre i figli maschi perseguitati politici.

Infatti oltre Vincenzo c’erano anche Giuseppe e Demetrio che finirono nel 1859  anche loro come la madre, in carcere ma con i fratelli di Agesilao Milano a Cosenza e il palazzo di famiglia divenne sede della gendarmeria fini alla 1860 e nei sei mesi di occupazione i gendarmi bruciarono libri, distrussero mobili, rovinarono tutto.

Matilde Mantile occupa da sempre un posto particolare nella vita  del figlio Vincenzo ed a quest’ultima il poeta dedica  un intero libretto con sonetti ed opere tra le quali l’albanese  e nella dedica scrive:

  ”A te sola o madre io consacro questi poetici versi col tuo latte materno mi spirasti il sentimento del bello, mi apristi la mente fanciulletta alla verità, mi formasti il cuore alla virtù allevandomi all’amore della patria e di Dio,mi insegnaste come l’uomo s’eterna amando la giustizia ed aborrendo l’iniquità”

 L’amore per la madre Matilde ben si concilia con l’emancipato Vincenzo Stratigò che scrive anche sul voto delle donne che lui gradisce ripetendo una frase che scrisse alla  madre dal carcere “ammiro le donne per la fortezza dello spirito e la bontà del cuore”

 Nella poesia”Una madre ed un figlio”: l’affetto materno e patriottico sono messi alla loro vera luce, poiché  si racconta di una madre vedova che ha l’unico suo figlio in carcere, si capisce per motivi politici ed il riferimento è chiaro.

Durante il periodo del carcere, il figlio fece pervenire alla madre una lettera che le mandò a mezzo di  un uccello.

Questo, con uno sbatter d’ali, fece cadere la lettera davanti ad una giovane pianta d’0livo simbolo della pace nel terreno antistante al palazzo della madre (riferimento al palazzo di famiglia).

La mattina seguente la madre  la raccolse e siccome analfabeta, corse subito dal dottore per farsela leggere.La lettera diceva che il figlio sarebbe tornato a casa quando il cerro avrebbe prodotto noci , il sambuco fichi e quando ella avrebbe cucito una camicia con i fili dei suoi capelli e l’avrebbe lavata con le sue lacrime.

Nel 1859 ci fu a Lungro appunto la famosa rivolta di piazza 16 Luglio.Nei mesi prima il figlio Vincenzo aveva fatto circolare tra i contadini arbereshe in Calabria la poesia “L’albanese”.

E così lo Stratigò prepara  il popolo alla rivolta e dal balcone del suo palazzo che affaccia in una piazza di Lungro-- che adesso prende il nome appunto di piazza 16 luglio---incita i suoi compaesani che si uniscono a lui  numerosi impugnando le armi e si incamminano per andare incontro a Garibaldi che sta passando dalla Calabria per raggiungere Napoli.

Scrive lui stesso “il 16 luglio 1859 quando il cannone d’Italia tuonava sul campo di Palestro, tentai di sollevare le colonie albanesi per recarmi in aiuto dei fratelli in Lombardia e a tal uopo incominciai il movimento a Lungro, mia  patria, proclamando l’indipendenza d’Italia.”

 Arrivati a Firmo, rimane  deluso perchè sperava di trovare aiuto da parte della popolazione (permettetemi una battuta-forse è stata solo questo per un secolo il motivo dell’antipatia verso gli abitanti di Firmo)e viene  fermato dal nemico.

Molti vengono arrestati tra cui i due fratelli dello Stratigò e  a Lungro  anche la madre donna Matilde, sessantenne, viene condotta nelle carceri di Lungro.

I figli, tranne Vincenzo che riesce a fuggire, finiscono nelle prigioni di Cosenza con i fratelli di Agesilao Milano. “Per tale azione generosa, scrive sempre Stratigò, i miei fratelli Giuseppe e Demetrio furono arrestati e condotti nelle carceri di Cosenza e condannati. Mia madre gittata nelle carceri di Lungro ed io con una taglia di 8500 lire sul capo.Allora la mia famiglia incomincio’ ad oberarsi di debiti e per sostenere i bisogni del carcere e della latitanza fu costretta ad alienare la più parte dei nostri beni”

Al figlio  la madre dal carcere scrive lettere il cui contenuto esprimeva l’amore per la Libertà e il plauso per la spericolata ribellione che il figlio aveva tentato nella giornata del 16 luglio.

Io sono nelle prigioni di Lungro insieme ad altre donne …i tuoi fratelli godono e cantano nelle prigioni di Cosenza con i fratelli di Agesilao Milano…..La causa è santa e per questo io soffro e voglio morire piuttosto per risuscitare nel cuore dei giusti e nel regno di dio

  Morì, nel 1870 e sulla sua lapide il figlio scrisse:

 “Qui riposa nella pace del Signore Matilde Mantile, di cristiana virtù e pietà pregiata. Schiuse gli occhi al solo affetto di sposa e di Madre; ebbe nove figli, quattro crebbe e cinque pianse:intrepida sofferse il carcere per l’Unità d’Italia. Visse ammirata, morì compianta da quanti la conobbero. Conforto degli orfani suoi figli è la speranza di poterla raggiungere là dove non tormenta l’idea di amara separazione”

 

Lucia Irianni

 

Era nata nel 1796 a Lungro.

 Nel 1835 rimasta vedova del marito, Antonio Damis, medico e botanico, continuò ad impartire ai figli una educazione orientata verso le idee liberali .

 I tempi erano duri e donna Lucia, molto religiosa, ebbe fede nel trionfo dei valori dello spirito e dell’intelletto  sacrificando la maggior parte del patrimonio familiare e  volle che i figli fossero educati nel collegio di S.Adriano di San Demetrio e quindi all’università di Napoli.

  Nel 1844  i figli Angelo e Domenico furono coinvolti come lo Stratigò nel processo di Cosenza  in conseguenza  dei moti  insurrezionali di marzo e lei si adoperò per  difenderlo con i mezzi ricavati dalla vendita di molta proprietà riuscendo ad ottenne la scarcerazione.

Nel 1848 il figlio Domenico, avendo capitanata la resistenza ai regi a campotenese e Monte Sant’Angelo, dovette vivere nascosto fino al 1851 epoca in cui venne arrestato.

E quindi nuovo processo a carico di lui e di numerosi lungresi che avevano combattuto ai suoi ordini.

 E così Donna Lucia Irianni come Donna Matilde e le altre donne, mogli, madri,  fu costretta ad assottigliare ulteriormente il patrimonio della famiglia per far fronte alle spese del processo, al pagamento delle multe e delle malleverie per tutti.

Ma da ricordare più di tutti è l’episodio verificatosi il giorno dell’arresto del figlio Domenico.

Scoperto latitante ed arrestato in casa di Maria Cucci e Raffaele Molfa,doveva passare innanzi la propria casa con i gendarmi perché il corteo scendeva dai musici-i lungresi sanno-che è la parte alta del paese.

La madre Lucia e le sorelle Giovannina e Anna avvertite del fatto, attesero dal balcone il corteo poliziesco e una volta sotto casa non piansero o gridarono come ognuno può pensare ma lanciarono sul congiunto fiori , confetti e monete come usava frasi per i cortei nuziali, accompagnandoli con espressioni auspicanti l’imminente fine della tirannide borbonica.

I gendarmi reagirono invadendo la  casa e con percosse alla sorella Giovannina ma la madre, con atteggiamento deciso, invocando la testimonianza dei passanti e minacciando di denunciare in chiesa l’abuso, riuscì a farli andar via. Morì il 123 Febbraio 1865.

    

Cintia Mattinò

 

Era la moglie di Pietro Irianni parente di donna Lucia.

Era lei che studiava tutti i modi per distrarre l’attenzione della polizia.

 Nel 1859  anche il marito Pietro partecipò alla rivolta di piazza 16 luglio.Quelli non arrestati furono indiziati e quindi sorvegliati e inquisiti tra cui Pietro Irianni.

La Cintia, per sottrarre le carte ed i documenti alle frequentissime perquisizioni, portò per  lunghi mesi sull’addome un fagotto in cui nascondeva e trasportava da casa a casa le carte.Madre di molti figli tra cui Orazio Irianni giornalista politico autore di risvegli calabrese morì a 84 anno a Lungro nel marzo del 1919.

 

Maria Cucci

 

E’ una donna che nutre forti sentimenti di libertà ed avversione al regime borbonico e quando diventa moglie  di Raffaele Molfa detto ndindirindio si trova a suo agio visto che entra in una famiglia anch’essa con idee liberali.

 La  sua casa era situata nella parte alta del paese e siccome molti erano i latitanti e quelli che necessitavano di un nascondiglio, lei aveva una particolare capacità di nasconderli.

  Ospitava, visitava i cospiratori e la sua casa era sede dei loro incontri. Quando la polizia entrava di sorpresa a casa sua lei, giunonica con il costume arbereshe, nascondeva i perseguitati sotto le sue vesti.

Ma un giorno si scoprì il gioco ed il latitante era proprio Domenico Damis. Scoperto il gioco, il gendarme cercò sotto le vesti di colpire il latitante con la spada ma la Cucci cercò di deviare il colpo mettendo le mani avanti e fu colpita alla mano mentre però Damis nella confusione saltava da una finestra-.La Cucci morì nel 1887 a 70 anni.

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Ed è dunque nel contesto di una Italia povera, allo sbando, senza diritti che  matura il dramma delle chiamiamole così “Rivoluzionarie”,che è dramma della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini, i propri figli e partecipare attivamente alla rivolta.

Si tratta di fenomeni tuttavia limitati ed è per questo che ne parliamo che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la regola.

E il contributo della donna a volte era patriottismo come quello di soffrire la prigionia per una giusta causa come diceva donna  Matilde, madre dello Stratigò, a volte di tipo logistico come faceva Maria Cucci ma per il perseguitato era sempre un marcia in più e quindi chi ha avuto la fortuna di avere una donna così al fianco, madre, moglie, sorella, figlia, si sentiva protetto e questo gli dava coraggio per continuare.

 Contributi quindi preziosissimi quelli delle donne lungresi. Le donna quindi come sostegno, come via di fuga, come collegamento con le donne degli altri patrioti, come approviggionamento nelle prigionie, le donne creative che inventavano vie di fuga.

 Le mie zie Maria e Vittoria Stratigò, nipoti di Vincenzo Stratigò, mi raccontavano da piccola che una volta la Mantile vestì con abiti da donna il figlio latitante e lo invitò, per la fuga, a far finta di andare alla fontana a riempire l’acqua e così infatti riuscì a fuggire.

 Il carnevale quindi ha radici antiche a Lungro e immaginate che desiderio di riscatto e di giustizia poteva avere chi, perseguitato, derubato e stanco di 20 anni di latitanza trovava ancora la forza di fare questo.

Quale monito per noi, quale esempio.

Lungro 4 ottobre  2004